C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

lunedì 9 dicembre 2013

STORIE DI ANIME: 5 - L'ANIMA DE' LI MEJO

 
 

Al di là dei luoghi comuni, questa volta occorre parlarne! Mettiamo tutto in chiaro, una volta per sempre. Sono sicuro che chi è morto non si può offendere. Come si dice: chi muore giace. Ma non ci giurerei. I dialetti ed alcune espressioni dialettali, ad esempio, sono la prova provata dell'esistenza di un aldilà.

Bene. Assodato questo primo assioma, possiamo andare avanti.

Questo aldilà, quindi, non è proprio come l'aldiquà, ci sono delle anime ( e non persone perché altrimenti occuperebbero spazio) che costituiscono una sorta di tiro al bersaglio, pronti a schivare i vari : mortacci tua, chi t'è mmuorto, all'anema 'e mammeta, and so on...

Esse sono però, in quanto anime, liberamente fluttuanti, bersagli mobili,

Diciamo poi che a Roma c'è una estrema libertà nell'epiteto pro bono animarum. Un continuo scoccare di frecce maldicenti, con conseguente evitamento da parte delle anime corrispondenti. Ma quelle dei romani, come tutte le anime, stupide non sono. L'anima, se è anima, è poco umana, quindi non può essere sciocca, lei è dotata di una capacità di schivar offese di molto superiore ai mortali. I mortali, infatti, posso diventare mortacci, ma non anime, anche da vivi. Essere anima è una condizione privilegiata. In primo luogo, quindi, io eviterei di considerare offesa l'inveire contro un morto, un vivo o mortaccio vivo, in modo generico. Senza cioè l'aggiunta del sostantivo anima (definirla sostantivo è comunque una contraddizione in termini).

Sono nato in una parte del nostro paese in cui è ancora vivo lo straordinario culto dei morti (gioco di parole che non è contraddittorio in termini).

A me la cosa ha sempre fatto impressione. Fino a quando non ho compreso che il culto non era per i morti ( ...quia pulvis es et in pulverem reverteris),ma per le anime di questi. E perché? Perché per quanto una persona possa essere stata bella e buona (καλὸς καὶ ἀγαθός), un po' di purgatorio se lo deve sempre fare. L'anima nel purgatorio, lo dice la parola stessa, si purga, anche perché da questa parte ci si purga della colpa, ma non della pena. Che tocca comunque scontare, dopo (non mi chiedete dopo quando?, perché significa che non avete capito nulla).

Perciò, nel dubbio dell'efficacia dell'indulgenza, è sempre meglio premunirsi.

Il rifrisco all'aneme d' o priatorio è un avera e propria necessità, non solo per ll'anema ma anche per chi sta ancora in buona salute. Si tratta di un uno scambio di favori, sollievo e preghiere ( si noti bene che in napoletano priatorio ha la stessa radice di priera, cioè preghiera), in cambio di grazie e protezione. Non mi dilungo oltre sull'argomento delle anime purganti, perché è ampiamente (e meglio) trattato altrove.

Ciò che m'interessa è dire che, nell'immaginario, nella cultura, nella lingua, queste anime sono percepite come fin troppo reali e sincretiche. C'è, da qualche parte, qualcuno che ci protegge, che ci guarda da lassù, con cui parlare, chiacchierare, contrattare.

I confini tra la materia vivente e le anime, diventano labili. Facilmente (e linguisticamente) valicabili.

In fondo le anime servono. Hanno una loro precisa funzione. I mortacci e le loro anime sono vivi, il culto pagano del regno dei morti ci fa un baffo, a noi moderni! Le anime sono indispensabili e sono nostri punti di riferimento in un universo fatto di finti vivi e di veri morti.

Le anime de' li mejo mortacci sono vive e lottano insieme a noi!



© 2013 Gianfranco Brevetto


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