C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

domenica 15 marzo 2015

NOMINA SUNT OMINA

















Mi sono sempre chiamato col mio nome. E questo è successo, più o meno, dal giorno in cui sono nato. Qualcuno, ma molto probabilmente è stato mio padre, sarà andato a declinarlo in qualche cartaceo e sonnolento ufficio d’anagrafe.
Da quel giorno il mio nome è stato quello. Punto.
Tengo a precisare, da subito, che non rivelerò nelle prossime righe né il mio nome, né la data e tantomeno il luogo di nascita. In verità, sono una persona molto riservata e gelosa di tutto ciò che mi appartiene. Per questo, tutti quelli che fossero interessati a questi dati possono interrompere qui la lettura. Non mi offendo.
Sono altre, e ben più importanti, le cose che dovete sapere.
Oggi ero al mercato. Di solito non ci vado mai, soprattutto al mattino. Una signora che conoscevo da molti anni si è avvicinata a me con un gran sorriso e mi ha detto:
-         Buongiorno Mario! come te la passi?

-         Buongiorno! Ho risposto senza pensarci su.

Subito dopo ho realizzato che, però, quello non era il mio nome e che la signora si era confusa. Forse l’età. Abbiamo comunque chiacchierato per qualche minuto e sono andato via fingendo di non aver fatto caso al lapsus.
Nel pomeriggio sono passato in ufficio, cosa che faccio sempre più svogliatamene e la mia segretaria (che era tutta presa dal rispondere ad alcuni messaggi sul suo smartphone) mi ha accolto distrattamente recitando:
-         Buonasera dottor Luigi!
-         Buonasera signorina!
Sono passato oltre e mi sono rinchiuso nella mia stanzetta, annunziando la mia assenza per chiunque avesse chiesto di me.
Luigi non è il mio nome e nemmeno quello degli altri impiegati dell’ufficio.
Quella clausura è durata circa un’ora, poi sono uscito. Nonostante fossero già le quattro del pomeriggio ho deciso di prendere un caffè. Inutile dire che il barista, che mi conosce da dieci anni, mi ha chiamato Michele. Ho dato la colpa al momentaneo affollamento del locale.
Successivamente sono passato in libreria, dal barbiere, al supermercato, da un apicultore, una negromante, un collezionista di bulloni per auto, un agrimensore, un dattilografo in cassa integrazione, un elettricista-idraulico, un motorista in pensione, una casalinga che mi abbraccia ogni volta che mi vede, un insegnante di latino che ha tentato tre volte il suicidio senza mai riuscirci, un ex pilota depresso che invece  ci stava riuscendo ma lo hanno salvato in extremis, un glottologo col quale ho un rapporto di fiducia, un autoferrotranviere.
Tutte persone che conosco, e mi conoscono, alla perfezione.
Ebbene, ho le lacrime agli occhi. Vi riporto solo i nomi con i quali mi sono sentito chiamare e lascio a voi ogni commento: Giorgio, Vincenzo, Marco, Mirko, Antonio, Alfio, Wilfredo, Ambrogio, Temiko (mai sentito e non credo che esista), Archelao, Tino, Silverio, Silvestro, Saverio, Ubaldo.
Per tutti ho avuto la stessa identica reazione, cioè nessuna.
Rientrando a casa, stasera, i miei figli hanno deciso di chiamarmi zio. Il fatto, che dall’inizio mi sembrava uno scherzo, adesso che sono disteso nel mio letto inizia a preoccuparmi. Insospettirmi. Ma oggi è stata una giornata pesante. Indagherò domani.


© 2015 Gianfranco Brevetto