C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

mercoledì 25 dicembre 2013

Somniare Somnium

 
 
Chère imagination, ce que j’aime surtout en toi, c’est que tu ne pardonnes pas.
Manifeste du Surréalisme

Dormo poco. Faccio anche fatica a riaddormentarmi se per qualsiasi motivo mi sveglio. Do la colpa ai sogni. Loro, non sanno cosa vuol dire dormire solo qualche ora. Il sogno, non sa cosa vuol dire essere sveglio. E così si diverte. Si gongola nella sua libertà temporale e morale. Infatti, non credo che il sogno si ponga il problema di esser dispettoso. Credo, però, che in fondo i sogni ce l'abbiamo un po' con noi, per non aver dato loro molto spazio. Ma di questo non mi sembra il caso di parlarne qui e ora.
Ieri sera, però, ho voluto cambiare tattica e, dopo aver bevuto la quotidiana quanto inutile tisana alle erbe che promettono miracoli, sono andato a letto ben intenzionato ad addormentarmi il più presto possibile. E così è stato.
Nell'annebbiamento e al rilassamento misto a impotenza, tipico dello stato notturno non cosciente, mi ero messo in attesa. Attendevo di sognare, o meglio, attendevo d'incontrare un sogno.
Quando la mia attività cerebrale, che evidentemente non potevo controllare, me lo ha permesso, il sogno è arrivato. Dico è arrivato perché quando si dorme non si ha l'esatta percezione dove uno sia e dove siano le altre cose. Se di cose si può parlare. Perciò il sogno mi si è presentato all' improvviso, come quando si entra in un banco di nebbia. A questo punto, di solito, si resta intrappolati in una storia che il sogno c'impone e della quale, spesso, si può anche fare a meno. Almeno quando ci si riflette al risveglio.
Ma questa volta, era grande in me la voglia di non farmi coinvolgere. Per farmi coraggio pensai intensamente alla storia di Ulisse con le sirene. All'inizio, il sogno ce la mise tutta e cercò di confondermi con immagini e persone che più o meno somigliavano a quelle della vita reale. Giocò con i sentimenti, con i desideri che non avevo mai voluto confessare. Ma senza riuscirci. Ero determinato a restarne fuori. Tra gli aspetti positivi dell'insonnia c'è anche il poter restare presenti a se stessi quando si dorme.
Per farla breve, una volta entrato in questa sottilissima nebbiolina, il sogno si è subito accorto che qualcosa non andava. Restava in dubbio sul da farsi. Fu in quel momento che misi in pratica il mio piano ed iniziai a parlargli.
Ovviamente il sogno non poteva rispondermi. Cercò di farlo, ma il significato di quello che diceva era talmente ingarbugliato e contorto, che nemmeno un terno secco mi avrebbe permesso di decifrarlo. Mi parve, però, di capire che si trattava di un personaggio molto capriccioso che, abituato a fare un po' come gli pare, non accettava di esser emesso in discussione. Certamente un tipo autoreferenziale. I latini l'avevano capito. Per loro, l'azione di sognare non si distaccava mai dal suo complemento oggetto.
Approfittando di questa incertezza ho così iniziato a raccontare, al sogno, la mia vita. Nulla di particolare, gli ho solo detto della mia giornata, di quello che faccio, le persone che incontro, cosa mangio. Insomma, quello che faccio in sua assenza.
Mi sembrava che lui fosse interessato, per il sogno era come scoprire un mondo nuovo, mai visto. Forse in questo modo, pensavo, avrei potuto creare un contatto con lui, farmelo amico, ed evitare le lunghe ore di veglia notturne.
La nebbia cominciò ad infittirsi, segno che lui si stava rilassando. Continuavo a parlare, descrivevo nei minimi particolari come si lavano i piatti o come funziona il microonde.
All'inizio lui tentò di ribellarsi cercando di confondere i differenti piani e la trama del mio racconto. Poi, poco a poco, tutto divenne bianco intorno a me. In quel mondo confuso si fece silenzio, non c'erano più immagini, desideri, sentimenti o ansie. Tutto era calmo.
Il sogno si era addormentato. Ed io con lui.

© 2013 Gianfranco Brevetto

lunedì 16 dicembre 2013

Rifiutammo di conoscere con l'inganno

 
 
Il senno è di poi. Prima senza ragioni ci amammo, forse inutilmente ci conoscemmo.
Ma ti preferii com'eri.
La ragione poco aggiunse alle nostre vite,
Se non la coscienza che non saremmo sopravvissuti al nostro sentimento,
Alla compulsività dell'esserci, al non abbandonarsi.
Sfidammo la ragione: la permanenza dello stato di veglia. Barriera invalicabile.
Noi ci arrendemmo di fronte alla paura di cedere.
Disillusi. Ci scoprimmo umani. Nudi
Ma non fummo cacciati. Fuggimmo.
Ci esiliammo. Rifiutammo di conoscere con l'inganno.
La serpe non poté nulla. Ci amavamo.
Così fu. Corremmo distante, al di là della fisica.
Esseri pensanti, ci nascondemmo.
É qui il malinteso:
Da allora,
La ragione ci fu preclusa per sempre,
Perché in quel luogo avemmo paura di non amarci. Di perderci.
Per questa colpa non fummo più dèi. Ma amanti.
Nell'esilio,
Nell'attesa,
Mi piacque guardare in fondo ai tuoi occhi mortali.

© 2013 Gianfranco Brevetto, Op. Cit.


venerdì 13 dicembre 2013

In assenza di parole

 
 



Una sera.

Quella.

Uscita te.

Rimase il dolore.

Ultimo.
 
Uno sguardo.

Senza promesse.

Quel dolore.

Improvviso.

Serale.

Inusitato.

Senza sofferenza.

Muto.

In assenza di parole.

Pronunciate.

Senza conoscerne.

Altre.

Prive di accezioni.

Il tempo.

Presente.

Il luogo.

Quella sera.
Intorno.

La materialità.

Oggetti.
Eterne inutilità.

Conglomerati.

Atomi.

Senza vita.

Le pagine.

Un libro.

Una lampada.

Spenta.

Un orologio.

Sul muro.

Il meccanismo.

I suoi movimenti.

Reali.

Meccanici.

Singoli.

Vuoti.

Tempo.

Dolore.

Da riempire.

Come agende.

O borse.

La vacuità.

É dolore.

Vita sospesa.

Apnea.

Inesprimibile.

Tacere.

Smettere di scrivere.

Immobilità.

Assoluta.

Nessuno.

Incedere del tempo.

Certo.

Senza noi.

Senza inseguirci.

Senza precederci.

Senza attese.

Senza meriti.

Giudizi.

Ora.

Al buio.

In segreto.

La promessa.

L'avrei mantenuta.

Come sempre.



2013 G. Brevetto, Op. Cit.


lunedì 9 dicembre 2013

STORIE DI ANIME: 5 - L'ANIMA DE' LI MEJO

 
 

Al di là dei luoghi comuni, questa volta occorre parlarne! Mettiamo tutto in chiaro, una volta per sempre. Sono sicuro che chi è morto non si può offendere. Come si dice: chi muore giace. Ma non ci giurerei. I dialetti ed alcune espressioni dialettali, ad esempio, sono la prova provata dell'esistenza di un aldilà.

Bene. Assodato questo primo assioma, possiamo andare avanti.

Questo aldilà, quindi, non è proprio come l'aldiquà, ci sono delle anime ( e non persone perché altrimenti occuperebbero spazio) che costituiscono una sorta di tiro al bersaglio, pronti a schivare i vari : mortacci tua, chi t'è mmuorto, all'anema 'e mammeta, and so on...

Esse sono però, in quanto anime, liberamente fluttuanti, bersagli mobili,

Diciamo poi che a Roma c'è una estrema libertà nell'epiteto pro bono animarum. Un continuo scoccare di frecce maldicenti, con conseguente evitamento da parte delle anime corrispondenti. Ma quelle dei romani, come tutte le anime, stupide non sono. L'anima, se è anima, è poco umana, quindi non può essere sciocca, lei è dotata di una capacità di schivar offese di molto superiore ai mortali. I mortali, infatti, posso diventare mortacci, ma non anime, anche da vivi. Essere anima è una condizione privilegiata. In primo luogo, quindi, io eviterei di considerare offesa l'inveire contro un morto, un vivo o mortaccio vivo, in modo generico. Senza cioè l'aggiunta del sostantivo anima (definirla sostantivo è comunque una contraddizione in termini).

Sono nato in una parte del nostro paese in cui è ancora vivo lo straordinario culto dei morti (gioco di parole che non è contraddittorio in termini).

A me la cosa ha sempre fatto impressione. Fino a quando non ho compreso che il culto non era per i morti ( ...quia pulvis es et in pulverem reverteris),ma per le anime di questi. E perché? Perché per quanto una persona possa essere stata bella e buona (καλὸς καὶ ἀγαθός), un po' di purgatorio se lo deve sempre fare. L'anima nel purgatorio, lo dice la parola stessa, si purga, anche perché da questa parte ci si purga della colpa, ma non della pena. Che tocca comunque scontare, dopo (non mi chiedete dopo quando?, perché significa che non avete capito nulla).

Perciò, nel dubbio dell'efficacia dell'indulgenza, è sempre meglio premunirsi.

Il rifrisco all'aneme d' o priatorio è un avera e propria necessità, non solo per ll'anema ma anche per chi sta ancora in buona salute. Si tratta di un uno scambio di favori, sollievo e preghiere ( si noti bene che in napoletano priatorio ha la stessa radice di priera, cioè preghiera), in cambio di grazie e protezione. Non mi dilungo oltre sull'argomento delle anime purganti, perché è ampiamente (e meglio) trattato altrove.

Ciò che m'interessa è dire che, nell'immaginario, nella cultura, nella lingua, queste anime sono percepite come fin troppo reali e sincretiche. C'è, da qualche parte, qualcuno che ci protegge, che ci guarda da lassù, con cui parlare, chiacchierare, contrattare.

I confini tra la materia vivente e le anime, diventano labili. Facilmente (e linguisticamente) valicabili.

In fondo le anime servono. Hanno una loro precisa funzione. I mortacci e le loro anime sono vivi, il culto pagano del regno dei morti ci fa un baffo, a noi moderni! Le anime sono indispensabili e sono nostri punti di riferimento in un universo fatto di finti vivi e di veri morti.

Le anime de' li mejo mortacci sono vive e lottano insieme a noi!



© 2013 Gianfranco Brevetto


domenica 8 dicembre 2013

STORIE DI ANIME: 4 - L'IO, BUONANIMA.

 
 

Oggi sono stato ai funerali del mio Io. Una cerimonia sobria, poca gente, d'altronde non ho potuto avvisare gli Altri, non ne ho avuto il tempo. Non mi sono né commosso né dispiaciuto, come gli Altri, del resto.

C'ero, anche se non potevo più utilizzare il pronome personale di prima persona. Quindi c'ero ma mi sentivo particolarmente distaccato. Come esterno. Ricordo bene di essermi subito accorto di non riuscire più a pensare. Calma! Per pensare penso, ma non riesco più a parlare a me stesso. Quando ci provo è come se parlassi al muro. Nessuno mi risponde. E, siccome dentro devo essere vuoto, la mia voce rimbomba e, dopo un po', mi provoca accessi di emicrania. Quindi sono costretto a stare zitto dentro e parlare solo all'esterno. Devo farlo quando c'è qualcuno, altrimenti, oltre a venirmi il mal di testa, mi prendono anche per matto.

Diciamo che senza un Io dopo un po' ci si abitua. E si inizia a provare anche un certo benessere. Nessuno ce l'ha più con me, ho smesso di essere permaloso. Nessuno si permette più di darmi dell'egoista, dell'egocentrico e del narcisista. Nessuno prova più gusto nell'offendermi e nessuno si permette di darmi del tu (cosa che ho sempre odiato, anche quando il mio io era ancora vivo e vegeto).

Nei primi momenti, mi era da subito venuta la voglia di ricostruirmi un altro Io. Non per elaborare il lutto ( è ovvio che non posso farlo), ma per evitare quel senso di assenza che mi si ripropone ogni mattina quando mi sveglio.

Sono andato dal mio medico curante, il quale mi ha dato degli ansiolitici e mi ha detto che dovevo cambiare stile di vita. Dalla diagnosi e dalla prescrizione è evidente che non ci ha capito nulla. Ma è stata colpa mia, sono entrato nell'ambulatorio dopo una fila interminabile di persone anziane che erano lì per farsi misurare la pressione.

Non avendo l'Io, ho subito dedotto che il disturbo mattutino è un semplice reflusso gastrico. Prenderò delle compresse all'alluminio. Sono sicuro che tutto passerà in pochi giorni.

Così, la voglia di rifarmi un altro Io mi è subito passata. Questa scelta avrebbe comportato effetti collaterali, come la solitudine. Preferisco starmene per i fatti miei senza far male a nessuno. Ho letto su di una rivista che l'Io si ammala facilmente e che le cure per guarirlo sono lunghe, dispendiose e comportano anni di chiacchierate con specialisti del settore. Alle volte si può ammalare gravemente, ed allora tutto si complica. Ma è meglio non parlarne.

Il mio Io è morto di morte naturale. Un difetto dalla nascita. Era da sempre vissuto nella certezza di restare giovane. Appena ha visto che la cosa tirava per le lunghe, non gli ha retto la consapevolezza, che per un Io è tutto.

Come farò per il futuro? Semplice, se non ho più l'Io sarò un Altro generico. Quindi mi comporterò come tale, con tutte le conseguenze. Per prima cosa mi tratterò in terza persona, cambierò casa e automobile. Mi guarderò dall'esterno, mi vedrò aggirare tra gli spazi e le persone che un tempo avevano a che fare con il de cuius. Non potrò essere più coinvolto in emozioni e sentimenti. Libero, finalmente libero. Che gran soddisfazione!

Tornando a casa stasera, in un cassetto, ho trovato una busta. L'ho aperta. Dentro c'era il testamento olografo del mio Io. Ho riconosciuto subito la sua scrittura. l'Io ha  scritto quasi quattro pagine di cose che mi sembrano non aver senso. Non potendo disporre di beni materiali, parla di una donna e di alte cose che credo siano sentimenti. Cose tipiche da adolescenti, come era lui.

Il testamento era indirizzato all'Altro, cioè a me. Mi chiedeva di dare un ultimo bacio ad una certa sua amica il cui nome termina per “a”.

Ho portato la lettera da un notaio che mi ha subito nominato esecutore delle ultime volontà del defunto. Ho accettato. Come potrei dire di no, all'Io buonanima.



© 2013 Gianfranco Brevetto




sabato 7 dicembre 2013

STORIE DI ANIME: 3 - QUELLA VOLTA CHE MI MANDARONO ALL'INFERNO

 
 
Una volta mi mandarono all'Inferno. E io ci andai per davvero. Anche se, come è ben noto, quando ti ci mandano non è un ordine vero e proprio, ma, diciamo, un invito temporaneo. Io invece, presi la palla al balzo e ci andai.
Ciò che mi spinse ad affrontare il viaggio fu, più che altro, la curiosità. Avevo le idee chiare. Primo, dovevo verificare che esistesse e che fosse effettivamente in luogo malsano. Secondo, volevo vedere cosa ci fosse dentro e soprattutto chi c'era. Così, giusto per regolarmi sul come comportarmi e sul come giudicare il comportamento altrui. Terzo, per giocare a fare il misterioso e il saccente quando sarei ritornato indietro.
La cosa che più m'incuriosiva era l'individuare il metro di giudizio. Cioè cosa bisognasse, in fin dei conti, fare per poter meritare di andarci. Il problema era il limite, volevo capire, qual era il limite di sicurezza da non superare, per non trovarsi poi bruciacchiato in eterno.
Quando ci arrivai, assoggettandomi all'ordine di amica che non aveva gradito una mia battuta, mi sembrò, a prima vista, di trovarmi in un luogo del tutto normale. Ero infatti capitato in una strada ordinaria, come ce ne sono in molte città. A questo punto devo sfatare un luogo comune: l'Inferno non ha una porta ed è abbastanza facile entrarci, senza dover traghettare o altro.
Questa strada, che doveva appartenere evidentemente ad un quartiere centrale di questo Inferno, era ben tenuta. C'erano negozi, caffè, ristoranti, insomma proprio come da noi. Cioè da noi che abitiamo da questa parte che si chiama vita è che , almeno in teoria, non dovrebbe essere né un Paradiso, né un Inferno e, tanto meno, un Purgatorio. Anche se molti si lamentano di condurre una vita d'inferno o di abitare o di sentirsi in paradiso.
Io, in questa strada, da principio comminavo con sospetto. Immaginavo che, prima o poi, si aprisse sotto i miei piedi una voragine e incominciasse tutto quel turbinio di diavoli, fuoco, anime dannate che siamo soliti immaginare. Ma non accadde nulla. L'unica cosa che mi preoccupò e che le strade fossero vuote. Detti, però, la colpa al fatto che la mia amica mi aveva mandato all'Inferno ad ora di pranzo, mentre eravamo seduti al tavolo di un ristorante.
La temperatura era gradevole e ne ho approfittato per farmi una passeggiata. Dopo una mezz'oretta, mi sono anche seduto su di una panchina di un giardinetto e mi sono messo a contemplare la folta chioma di un albero che era sopra di me.
Ho subito fatto caso che intorno a me non solo non c'era essere umano (e questo mi sembrava comprensibile in una parte dell'aldilà che di umano non dovrebbe aver nulla) ma non c'era nemmeno un animale, che so un cane, un gatto, una formica, un passerotto. Niente. Ricordando quel poco che avevo studiato sull'argomento, pensai che questa assenza si dovesse al fatto che, secondo le teorie più affermate, gli animali non hanno un'anima e, di conseguenza, all'inferno non ci possono andare. Ma mi ripropongo di verificare la cosa appena ritorno, mi sembra una bella discriminazione.
Finalmente vidi un autobus che arrivava, pensai di prenderlo.
La fermata era proprio davanti a me. Feci un gesto con la mano e si fermò. Salì. C'erano due signori indaffarati che leggevano il giornale e il conducente che non mi chiese il biglietto. Mi sentii sollevato, in gioventù il biglietto non lo avevo pagato quasi mai e, qui all'Inferno, non sembrava un peccato così grave. L'autobus fece un bel giro del quartiere che non mi apparve particolarmente interessate. Intravidi in lontananza un incrocio che mi sembrò essere proprio con la strada nella quale mi ero trovato all'inizio. Allora scesi.
La novità, l'emozione di trovarmi all'inferno, mi aveva messo l'appetito. Percorsi un centinaio di metri e mi trovai dinnanzi un ristorantino che mi sembrava niente male. Anzi, non so perché, mi ricordava uno di quelli che frequentavo prima d'intraprendere quest'avventura.
Dall'esterno s'intravedevano anche i clienti, tutti indaffarati nel mangiare con avidità. Entrai.
Con mia grande sorpresa, il cameriere, mi venne incontro, quasi mi attendesse. Tutto mi sembrava molto familiare. Mi accompagnò ad un tavolo per due e fece cenno di sedermi. Io, all'inizio, non ci badai ma il tavolo non era stato rimesso in ordine e i piatti, le posate e i tovaglioli erano già stati usati. I bicchieri erano riempiti a metà di vino bianco.
Mi sedetti e attesi spazientito che il cameriere arrivasse per portar via tutto e riordinare. Dopo cinque minuti, questi arrivò con un piattino nel quale c'era un foglietto di carta. Me lo porse dicendomi: - La signora che era con lei ha atteso più di un'ora e poi è andata via. Il totale è settantotto euro e cinquanta centesimi. L'amaro l'abbiano offerto noi. Grazie.

© 2013 Gianfranco Brevetto

venerdì 6 dicembre 2013

STORIE DI ANIME: 2 - ATTENZIONE CADUTA ANIME!

 
 
 
Si la truove ca stace durmenno
pe’ ‘na fata gue’ nun ‘a piglia’
nu rummore nun fa cu li penne
guè cardì tu l’avissa scetà?
 
(Lo cardillo, anonimo del ‘700)
 
 
L’anima di Platone è complicata. Perciò: chi me l’ha fatto fare di scrivere su questo argomento? Potevo interessarmi di tante cose, invece proprio con l’anima di Platone mi sono andato a immischiare.

Insomma, per Platone quest’anima non nasce, c’è sempre stata ed è pure presuntuosa. Figurarsi che ha le ali. Ora, se le cose stanno così è un discorso che più di tanto non m’interessa. Mi sembra un po’ una stupidaggine. Invece Platone è stato furbo e ci inserito un bel raccontino o, come lo chiamavano gli antichi, un mito. E, a me, il mito mi acchiappa. Quindi cerco di riassumerlo, per come posso.

Quest’anima è come un carro. E fin qui, diciamo che la cosa tiene. Ma poi si complica, l’anima è come un carro trainato da un paio di cavalli alati condotti da un auriga. Ora, sembrerebbe che ‘sti cavalli non sono tutti e due uguali. O meglio, mentre nel carro delle anime divine, i due cavalli sono perfetti, in quello degli altri (l’altro è una sorta di antibiotico a largo spettro, una categoria nella quale, come sappiamo, rientra anche il sottoscritto insieme a pochi privilegiati) uno dei due cavalli è più scarso.

Quando tutto questo marchingegno funziona, e il carro vola bene, va verso l’alto fino a raggiungere un luogo di perfezione, al di sopra del cielo, che alcuni dicono si chiami l’iperuranio. Se il veicolo perde le ali, cade. Il primo corpo che trova se lo prende e l’anima diventa mortale. E, secondo me, è capitato pure a me di essere stato confuso per un campo d’atterraggio.

Insomma, le amine, quelle buone, arrivano in alto e si fanno un giretto, vedono da vicino tutta una serie di cose, apprendono e conoscono perfettamente, per contemplazione. Gli altri, quelli che hanno un’ala monca, non volano bene. Si disturbano l’uno con l’altro e non riescono a vedere nulla dello spettacolo.

Inutile dire che, quelli che vedono tutto in prima fila, avranno un destino sempre migliore, mentre per gli altri, le cose s’incominciano a mettere male. Ma non da subito, si possono fare diversi tentativi e, ogni volta che si sbaglia, si va sempre un po’ peggio. In questo ripetuto cadere io, facendo bene i conti, dovrei essere alla sesta volta, in piena mimesis. E quindi, secondo il signor Platone, in questa condizione, mi allontanerei per ben tre volte dal vero.

A parte queste considerazioni personali. Le anime azzoppate, quelle che non volano bene, hanno una visone parziale e soggettiva. Pensate che s’incarnano in storie mortali e, prima di tornare su, ci vuole un tempo per me impensabile: diecimila anni. Adesso, io sono un tipo ansioso e non ho pazienza nemmeno d’infilare un ago: figuratevi se mi metto ad aspettare dieci millenni!

Un’ultima cosa e poi vi lascio. Questa anima, come dicevo, è composta da tre pezzi: i due cavalli e l’auriga, cioè quello che conduce il carro. Il primo cavallo è quello più spirituale che tende ad andare verso l’alto naturalmente. Il secondo è la parte più sensibile e materiale. Quest’ultimo quadrupede è indisciplinato e tende a cambiare strada.  Scoop finale: secondo voi, a chi ci ha messo, Platone,  a guidare tutto il carroccio? All’Intelletto!

Insomma, a me quest’anima platonesca mi sembra complicata davvero. Però, questo mito, una cosa ci dice di buono: non ce la prendiamo con gli dèì se cadiamo e ci facciamo male!

 

© 2013 Gianfranco Brevetto

 

giovedì 5 dicembre 2013

STORIE DI ANIME : 1 - LE ANIME GEMELLE

 
 
Ho appena scoperto di avere un'anima gemella. Ma non ero nemmeno a conoscenza di avere un'anima figlia unica. Comunque, da quando ho scoperto che la mia anima è il frutto di un parto gemellare, sto meglio. Mi sento meno solo. Di conseguenza, ho acquistato un letto a castello e un sidecar.
Voglio che le due anime si trovino bene insieme e che possano liberamente girovagare e condurre una vita agiata, come si confà a delle anime che si rispettino.
Da subito, devo ammettere, che non sono sceso nei particolari. Non so se si tratti di gemelli monozigoti o dizigoti: l'importante è che il parto non abbia avuto conseguenze e che stiano bene.
Devo anche confessare che nell'occasione, dico quella della scoperta di questa parentela ignota, mi sono dovuto arrendere di fronte al fatto di possedere un'anima. Infatti, se non avessi fatto questa concessione filosofica, l'altra anima sarebbe restata priva della gemella di cui io ero inconsapevole portatore.
Che gioia! Appena si sono viste le due anime non hanno avuto problemi a riconoscersi: due gocce d'acqua! Sembra che si siano scambiate anche i numeri di cellulare e siano diventate amiche su facebook.
Mi sono anche convinto che le due anime sono molto più giovani di me. In fondo, come negare l'eterna adolescenza dell'anima!
Non ne conosco il sesso (cercarlo è un po' come disquisire su quello degli angeli), ma sono sicuro che, se non lo hanno ancora fatto, si fidanzeranno presto. Infatti, da quando stanno insieme tendono ad appartarsi e ascoltano musica ad alto volume. Io, poi, sono in continua preoccupazione e dormo poco: tornano tardi la sera e non vorrei che frequentassero ambienti poco raccomandabili.
Insomma, posso dire di essere contento e soddisfatto per aver acquisito questa inaspettata parentela, per aver assistito al ritrovamento da parte della mia anima della sua gemella, ma, per il resto, ho perso la mia tranquillità ed i miei ritmi da navigato cinquantenne.
Devo anche, in ultimo, confessare che non ho mai capito perché le anime gemelle non vengano tenute insieme dalla nascita, perché s'impedisca loro di condurre una vita famigliare normale, invece di sottoporle al continuo stress di andare alla ricerca una dell'altra. Con tutte le anime che ci sono in giro, vi è il rischio concreto di non ritrovarsi mai. Se avessero la possibilità di stare insieme sin dal parto, avrebbero più tempo per conoscersi, per familiarizzare, si eviterebbero anche molte liti, separazioni, divorzi.
Ecco io credo che, in un paese civile, uno dei primi articoli della Costituzione dovrebbe prevedere l'inseparabilità alla nascita delle anime gemelle e, considerando tutte le preoccupazioni che mi stanno dando, ci vorrebbe una legge che obblighi queste due anime conviventi a rendersi autonome, lasciando in grazia di Dio i relativi proprietari.

© 2103 Gianfranco Brevetto


mercoledì 4 dicembre 2013

IL KIT DELL'ESISTENZA

 
 
Ho finalmente deciso il regalo che mi farò per il prossimo Natale. L’ho trovato a poco prezzo navigando in internet. Ho deciso, inoltre, che non farò regali a nessuno, perché sono uno al quale non garba l’aspetto consumistico delle feste. Soprattutto quelle sacre.
Dunque ho deciso il regalo che mi comprerò sarà il Kit dell’Esistenza. Si tratta di una scatoletta grande poco più di quella delle scarpe. Ce ne sono di diversi colori, verdi, gialle, rosa pallido. Io ne ho presa una gialla, perché mi sembrava di un giallo abbastanza intenso e quindi in linea con l’esistenza che mi piacerebbe avere.
Il sito rassicurava i propri clienti che il pacco sarebbe stato recapitato in pochi giorni, con un corriere speciale, direttamente al proprio domicilio. Senza spese aggiuntive. Il pacchettino appare molto bello e sulla scatola c’è anche scritto, in lettere argentate, il mio nome per intero. Una vera sciccheria.
Proprio il regalo giusto per Natale. Da poter sfoggiare in bella mostra sotto l’albero insieme a qualche bottiglia di spumante, al torrone ed alle scatole di cioccolatini. Sono sicuro comunque che, sotto l’albero, ci saranno anche altri regali. Parenti ed amici che non si fanno tutti i miei problemi di morale e di economia.
Il giallo intenso e lucido della confezione luccicherà durante notte con le luci degli addobbi. Non vedo l’ora! Mi sento, anzi, un vero e proprio fortunato a possedere, per me e per me solo, questo favoloso Kit. Tutti me lo invidieranno e correranno anche loro , all’ultimo minuto, a comperarlo.
Detto questo, per oggi vi saluto, perché ho fretta e devo andare a vedere se il pacchetto è già arrivato.
Giusto, dimenticavo di dirvi il prezzo: pochi euro! Ciao a tutti!
Ma no, non si può! Ero già per le scale e mi sono ricordato un’altra informazione importantissima.
Molti di voi si chiederanno cosa c’è dentro questa scatola. Sono sicuro che tutti siete curiosi di sapere cosa contiene.
Va bene, mi avete convinto a svelarvi un segreto. In primo luogo, come è scritto nelle condizioni contrattuali, da accettare all’atto dell’acquisto e scritte in minuscoli caratteri, il contenuto dipende dal colore. Nelle note, in caratteri invisibili e che ho decifrato solo con l’aiuto di una lente d’ingrandimento, c’è scritto che il riempimento delle confezioni viene fatto in gran segreto direttamente in fabbrica. Nessuno dei dipendenti è autorizzato a svelarlo, pena il licenziamento. E su questo segreto, in nome della privacy, mi sono trovato assolutamente d’accordo. La parte sulla quale ho avuto qualche perplessità (tanto che non sono nemmeno riuscito a leggerla per intero, quanto era piccolo lo scritto) riguarda il fatto, almeno così mi sembra di aver capito, che questo contenuto è ignoto anche per chi acquista e si conoscerà solo al momento dell’apertura della scatola.
Nonostante queste avvertenze, ho avuto fiducia e ho ordinato lo stesso la scatola. Altrimenti rischiavo di restare senza. Ma da consumatore accorto mi sono informato bene.
Da alcune ricerche di mercato commissionate da una ditta concorrente, che produce Elisir di Felicità, risulterebbe ( e il condizionale ci sta tutto) che il 99% degli acquirenti del Kit dell’Esistenza non ha il coraggio di aprire il pacco acquistato, per il timore di aver sbagliato nella scelta del colore della scatola.
Infatti, secondo una nota ricerca commissionata da un'altra azienda che vende Fumo di Camini, se il colore della confezione di Kit dell'Esistenza acquistata non corrisponde a quello del misterioso contenuto, si sta fermi un turno e non si esiste più.

© 2013 Gianfranco Brevetto




martedì 3 dicembre 2013

PRESEPI




      Cicerenella teneva 'no gallo
Tutta la notte nce jeva a cavallo
   Essa nce jeva po' senza la sella
Chisto è lo gallo de Cicerenella


 
 

Sono nato a Napoli. Sono un napoletano. Non ho    mai pensato di essere di altre parti. Eppure, devo confessarlo, qualche tentazione mi è venuta. Ci ho provato alcune volte. Mi sono immaginato di diverse città. A volte di Praga, poi per due mesi ho pensato di essere di Siviglia e, per un intero anno, non riuscivo a togliermi da mente Tolosa. Ma non ne ho avuto mai il coraggio. Il coraggio di un passo definitivo.

C'è una particolarità che mi ha sempre convinto a non tagliare questo cordone. Si tratta di una precisa necessità proveniente dalle persone che hanno, o hanno avuto, contatti con me: io devo fare il napoletano. Indipendentemente di dove io voglia essere, io mi devo comportare da napoletano. Nonostante siano oramai quasi trent’anni che non ci abito in modo stabile. Ci ritorno. É vero. Ma, credetemi: non è la stessa cosa.

Dunque mi si chiede di essere napoletano, ed io li accontento. Anche se non ricordo bene cosa significhi essere o fare il napoletano. Lo faccio per compiacere e per ricordare a me stesso da dove provengo. Però non sono sicuro che quello da me rappresentato sia un vero e reale napoletano. Molto spesso mi ritrovo, come fanno anche molti napoletani originali, a recitarne la parodia.

Per essere sicuro di fare il napoletano dovrei riprendere contatti seri e duraturi con questa città. Anzi, per fare il me napoletano dovrei avere almeno un confronto. Per esempio, prendere un ipotetico altro me che in tutti questi anni non si sia mai mosso da quella città. Solo così potrei soddisfare che mi sta intorno e soddisfare, soprattutto, me stesso. Rappresentato e rappresentazione coinciderebbero.

Ma così non è. E, in tutti questi anni, ho sempre dovuto, in qualche modo, arrangiarmi. Per fare il napoletano o almeno esserlo credibilmente, mi sono ritrovato ad accentuare tutto quello che ritenevo fossero i caratteri di napoletanità in me presenti (o residui). Con risultati alterni. Anche perché spesso ho dovuto, mio malgrado, difendere quella che io ritenevo essere la napoletanità vera. A cominciare dalla pronuncia del dialetto, per proseguire fino alla consistenza della pasta della pizza, finendo alla preparazione del caffè.

Alla fine, però, mi ci sono abituato. E quando mi chiedono di farlo, lo faccio. Cerco d'immedesimarmi alla meglio nel mio ruolo. Anzi devo dire che, a volte, mi diverto. Infatti faccio passare per napoletani modi e caratteristiche che sono mie personali e che, i napoletani miei contemporanei, si guarderebbero bene dal fare propri.

Ma, a parte tutto questo inutile ragionamento (che a rigor di logica va comunque completato), devo dire che, essendo costretto a fare il napoletano, mi sono sovente confrontato con il presepe. In questo caso, ho interpretato al meglio le mie origini. Come un vero conoscitore. Ho infatti dimostrato infinita confidenzialità con i vari personaggi, con le possibili disposizioni della scena, fino ad immaginare me stesso come personaggio della rappresentazione natalizia. Non un personaggio principale, ma uno che arriva magari da fuori e si trova di fronte quel pò pò di situazione. Avrei sicuranente voluto far parte di quel gruppo di mori introdotti nel presepio napoletano proprio a seguito delle influenze dell'orientalismo. Inutile dire che non mi sarebbe piaciuto avere le mie sembianze attuali, da napoletano apparente, ma quelle di un moro reale.

Sono sicuro che anche lì, nell'atmosfera sacra e stagionale del presepe, qualcuno mi avrebbe chiesto di essere qualcun altro. Magari un re magio, un pastorello, un angelo con la scritta in latino. Vi devo confessare, però, che questa volta mi   opporrei. Se proprio non potessi fare la parte del moro col turbante, opterei, considerata l'eccezionalità della situazione e senza indugio alcuno, per quella di un napoletano. E poi, con rispetto parlando, non sono nato a Betlemme.





© 2013 Gianfranco Brevetto


mercoledì 27 novembre 2013

Quando io sono su, lei è giù!

 
 
 
 

L'idea che sottende questo racconto è una follia. Non potrebbe essere altrimenti. Anzi, da subito, confesso che ne trovo sconveniente la lettura e la sconsiglio.
Soprattutto per chi non ha mai messo le dita nel naso e per quelli che hanno una dizione impeccabile. Figurarsi poi se possono leggerla quelli che lavano la macchina il sabato o quelli dalla memoria infallibile.
Per leggere questo racconto occorre essere imperfetti. Qualora non vi trovaste in questa condizione favorevole, astenetevi dal continuare.
Per quanto folle, l'idea è però semplice ed elementare. Ovvia. Quindi l'accennerò appena, per timore di offendere i lettori.
Eccola: Se si viaggia ad altezze differenti, non ci s'incontra!
Qualcuno penserà subito ad altezze morali, culturali, di ceto e di censo. Non è così. Cancellate dalla vostra mente questa idea. Se non riuscite a farlo, anche in questo caso, non continuate a leggere.
Superata questa ulteriore difficoltà devo confessare, in tutta sincerità, che è mia pretesa e convincimento riuscire a dimostrare che gli uomini non sono disposti su di un piano orizzontale, ma si spostano liberamente in alto e in basso.
A questo punto sono io a chiedervi di non proseguire. Lasciate a me solo questa idea e la motivazione per cui essa è divenuta un solido convincimento personale.
Come? Siete ancora qui?
Allora andiamo avanti.
Ho un'amica cara, Ada, con la quale non riusciamo ad incontrarci mai. Siamo amici da anni, parliamo spesso e con piacere, ci confidiamo, ci aiutiamo nei momenti difficili. A questa apparente relazione normale si devono, però, aggiungere alcuni piccoli particolari. Forse del tutto ininfluenti per i più.
Non siamo mai andati a cena insieme, non abbiamo mai fatto una passeggiata affiancati. Non ci siamo mai guardati negli occhi, mai abbracciati. Baciarsi, poi, non è nemmeno pensabile.
Questa donna, infatti, non l'ho mai vista. Non perché non esista. Anzi, di questo ne sono sicuro. Ciò che realmente m'impedisce d'incontrarla è che lei è su ed invece io sono giù. E quando io sono su lei è giù. Cioè, noi non c'incontriamo perché io mi trovo ad un'altezza che non combacia mai con quella in cui si trova lei.
Infatti quando la chiamo o lei mi chiama al telefono, io le chiedo: Ada dove sei? E lei mi dice: Su.
In quell'istante io alzo gli occhi al cielo e sono sicuro che anche lei, in quello stesso istante, guarda in basso.
Ma niente da fare. Vediamo solo un piccolo puntino in lontananza e, se prendo un cannocchiale potente, riesco a vedere anche una manina lontana che mi fa ciao ciao.
La cosa più strana è che io, come lei, riusciamo a vedere altra gente che però, spesso, non è quella che c'interessa. State certi: Tutta questa grande confusione di spazi non è una cattiveria. Le disposizioni sono causali e questo ha i suoi pregi e i suoi difetti.
Per esempio c'è un paese strano in cui parte degli abitanti sono su e parte giù (per il sindaco fanno a turno), lo stesso accade per intere famiglie, per giocatori di briscola, per amanti, per padri e figli, madri e nonne. Insomma, e vi prego di crederci, è come se si fosse su di un'enorme parete, attaccati come dei quadri.
I primi tempi, molti si meravigliavano di questa situazione, poi , come me e Ada, ci abbiamo fatto l'abitudine. Adesso, ci chiediamo dove sei solo per un'assurda curiosità.
-Dove sei ?
- Giù! E io? Indovina?
- Su
- Ma ieri eri su!
- Ma solo per un attimo te lo assicuro! E tu cosa facevi giù?
- Niente mi sono svegliato qui!
Vi devo fare un'ultima confessione.
Io e Ada, però, segretamente nutriamo una speranza: vedendo l'andazzo che c'è in giro, siamo quasi sicuri che, prima o poi, un errore del destino ci farà incontrare.

© 2013 Gianfranco Brevetto
 
 
 
 
 


domenica 24 novembre 2013

L'INNOMINABILE


 
 




                                                  ......dedicato ad un'amica il cui nome finisce per "a".
 

Tra i tanti dubbi della sua vita, Clementina quella volta sembrava non aver avuto alcuna esitazione.
Alla voce "situazione sentimentale" di facebook aveva indicato: relazione complicata. La cosa le era sembrata naturale come scrivere il suo nome. Di una cosa era stata  da sempre sicura: lei era un persona complicata e, di conseguenza, complicate dovevano essere tutte le cose che faceva. Quindi anche le sue relazioni sentimentali. Anzi, con l’andare del tempo, di quel definirsi complicata ne era divenuta fiera, guai a chi osava metterlo in dubbio.
Tutte le volte che Clementina aveva cercato di capirci qualcosa, si era trovata di fronte a garbugli tali che le avevano fatto pensare che, la sua complicazione, era un dato di fatto.
"Ecco. Sono fatta così! Quindi è inutile che mi capisca o che mi si  cerchi di capire. Sono complicata! E non è mica colpa mia. Complicati si nasce, non so se sia un privilegio o una dannazione. Non riesco a darmi una risposta: è una risposta  complicata!"
Anzi, col passare del tempo, riteneva che le situazioni più semplici, o a prima vista semplificabili, non facessero per lei. Le apparivano dubbie, infide. Per questo motivo,  si era accompagnata da sempre con persone che, in apparenza, le parevano complicate, così, almeno, avrebbero avuto con lei dei punti in comune. 
E a persone complicate, si addiceva bene anche una relazione complicata.
Neanche a dirlo, Clementina aveva una vita complicata. Lavori complicati, svaghi complicati, leggeva solo libri che riteneva complicati.  
La complicazione del suo tempo esige qualche rigo a parte.
Le giornate di Clementina non erano mai come quelle degli altri. Le sembrava che questi benedetti altri, trascorressero  giorni sereni e lineari, nei quali, di tanto in tanto, poteva succedere qualcosa di poco conto.
I giorni di Clementina, invece, erano eccezionalmente complicati, tanto che anche lei faceva fatica ad organizzarli. Dal mattino fino a sera, le sue ore erano di una complessità imparagonabile. 
A volte non le restava altro che attendere che trascorressero, tanto queste divenivano fitte ed imperscrutabili.
Neanche a dirlo, aveva un’agenda complicata. Anzi ne possedeva più di una, con l’intento di semplificare alcuni orari che non si sarebbero mai incastrati tra di loro.
Ma di tutta questa complicazione, in fin dei conti, Clementina era contenta. Le serviva per spiegarsi tante cose e un po' la utilizzava come alibi. Se le cose erano talmente complicate e complesse, lei si sentiva autorizzata a rifiutarle, a sopportarle a malapena, a infastidirsene.
Marcotullio, il fidanzato di Clementina in questa relazione complicata, non si sentiva, a volte, sufficientemente complicato e, quasi quasi, voleva dire a Clementina di non sentirsi all'altezza di tante complicazioni.  Queste, poi, si andavano a sommare ad altre complicazioni. Ad esempio, le sue. 
A dir la verità, ma proprio a dirla tutta, lui si sentiva attratto da Clementina. Le piaceva tantissimo suo nome, i suoi capelli lunghi e tormentati, il suo sorriso e la sua voce. Anche se tutto appariva complicato, lui voleva solo dire a Clementina che provava per lei un certo sentimento.  Ma questo sentimento non si poteva nominare: avrebbe complicato le cose. Comunque, Marcotullio pensava che, anche se non si nominava, quel sentimento sempre tale e quale rimaneva. Ne aveva parlato più volte a Clementina, ma lei aveva detto che, tutto questo discorso, le appariva oltremodo complicato.
Un giorno, Marcotullio era seduto, fianco a fianco a Clementina, su di un treno sul quale erano saliti per fare una cosa complicatissima, e che adesso non vi sto a spiegare. Guardandola si accorse che, da quando anni addietro si erano conosciuti , non l'aveva mai baciata. E questo, neanche a dirlo, per evitare complicazioni.
Ma quella volta, si fece coraggio. Si avvicinò e appoggiò le sue labbra su quelle di Clementina. Semplicemente. Durò un attimo, poi tornarono alle loro esistenze complicate. Ma chi scrive è sicuro che, in quell'attimo, pensarono entrambi a quel sentimento innominabile.
E, siccome nominarlo sembrava la cosa più semplice da fare, evitarono di farlo.
 
 

            © 2013 Gianfranco Brevetto



 
 
 


venerdì 22 novembre 2013

CANNIBALI !


Renato è un vegetariano convinto, quindi, sul momento non fece caso a quella che poteva sembrare una battuta innocente.

–Posso assaggiare il suo dito?

La richiesta proveniva, addolcita con una vocina minuta e serena, da una signora che le si era accostata alla fermata del bus.

- Posso assaggiarne almeno un pezzetto? Insistette quella donna minuta anche nell’aspetto.

Renato sorrise. La guardò e poi tornò a scrutare in lontananza, in attesa d’intravedere da lontano il 22 barrato.

- Mi scusi signore, sia gentile, mi farebbe assaggiare anche solo una falange del suo dito?

Renato guardò di nuovo la signora e finse di stare al gioco.

- Le assicuro che la mia falange non è un granché. Provi da quel giovanotto lì di fronte, lui è più giovane.

- No, io vorrei assaggiare proprio la sua! Sono un’intenditrice e le assicuro che il suo dito è un vera prelibatezza.

- Ma su signora, non mi faccia ridere. Ecco sta arrivando il bus. La saluto.

- Io non voglio far ridere proprio nessuno e, con le buone o con le cattive maniere, io mangerò il suo dito!

- La prego signora, non insista, devo prendere il bus. E poi, perché dovrei cederle il mio dito?

- Guardi che mi basta solo una falange…

- Sì, appunto, perché dovrei permetterle di mangiare la mia falange?

- Perche sono un cannibale!

Renato si scostò di qualche passo. E con due balzi improvvisi salì su un bus che stava, proprio in quel momento, richiudendo le porte. Non era il 22 barrato. Ma chi se ne importa, sarebbe sceso alla fermata successiva. Mentre cercava di dimenticare al più presto quella buffa signora, un ometto sulla sessantina si accostò a lui e fingendo di dover scendere, gli sussurrò all’orecchio:

- Non può immaginare come gradirei mangiare almeno l’alluce del suo piede destro.

Renato fece appena in tempo a voltarsi che quell’ometto era già sparito.

Renato scese alla prima fermata, ripromettendosi di salire sul 22 barrato che seguiva nella  fila indiana nel traffico cittadino.

- Ha visto quanti ce ne sono? Gli disse un signore dal cappotto viola.

- Di cosa? Rispose frettolosamente.

- Di cannibali! Oggi è davvero impossibile andare in giro!

- Ma io non ci credo.  Si tratta di uno scherzo.

- No guardi che è proprio così, le consiglio di prestare attenzione.

- Va bene, stia tranquillo, starò attento.

Renato cercava di allontanarsi frettolosamente quando, quello stesso signore, gli si avvicinò. A guardarlo bene, aveva un volto diverso da tutte quelle strane persone incontrate nella baraonda cittadina. Mostrava un interesse, quasi morboso per lui. Renato, questa volta, invece di sentirsi infastidito era come attratto, affascinato.

- Non stia a sentire quei cannibali da poco conto, di mi disse a voce bassa.

- E perché dovrei?

- Mi ascolti, la conosce la storia del dottor Faust?

- Certo! Ma quello non era un cannibale era un demone.

- Io non sono né l’uno né l’altro.

- Bene, mi fa piacere, ma adesso ho altro da fare.

- Fermo, Io potrei essere uno come lei.

- Certamente , adesso però…

- Anzi, sono sicuramente come tanti suoi contemporanei

- Bravo! Io vado…

- A me non interessa la sua anima..

- Ammesso che io la abbia … Ma insomma, cosa vuole da me?

- Ecco, le lascio una piccola lista. In fondo c’è il mio indirizzo, la attendo!

Renato mise in tasca quel foglietto frettolosamente. Lo conservò.

La sera, rientrato a casa, si avvicinò alla finestra. Nell’ultimo chiarore del giorno lesse:

“ I tempi cambiano (e poi, chi ha detto che i tempi siano mai esistiti?) Lei, come altri, possiede alcune cose, del tutto irrilevanti, che non le servono più a nulla. Molto probabilmente alcuni miei, e suoi, simili gliele hanno già sottratte. La prego dunque di consegnarmi quel che le resta del coraggio, del senso che attribuiva alle cose, della voglia di vivere, dei sentimenti, della dignità.

Cordialmente.”

Renato ripiegò il biglietto. Fissò le strade che si svuotavano rapidamente. Aveva voglia di piangere. Ma, anche quella volta, non riuscì a farlo.

 

 © 2013 Gianfranco Brevetto