Cicerenella teneva 'no gallo
Tutta la notte nce jeva a cavallo
Essa nce jeva po' senza la sella
Chisto è lo gallo de Cicerenella
Sono nato a Napoli. Sono un napoletano. Non ho mai pensato di essere
di altre parti. Eppure, devo confessarlo, qualche tentazione mi è
venuta. Ci ho provato alcune volte. Mi sono immaginato di diverse
città. A volte di Praga, poi per due mesi ho pensato di essere di
Siviglia e, per un intero anno, non riuscivo a togliermi da mente
Tolosa. Ma non ne ho avuto mai il coraggio. Il coraggio di un passo
definitivo.
C'è una particolarità che mi ha sempre convinto a non tagliare
questo cordone. Si tratta di una precisa necessità proveniente dalle
persone che hanno, o hanno avuto, contatti con me: io devo fare il
napoletano. Indipendentemente di dove io voglia essere, io mi devo
comportare da napoletano. Nonostante siano oramai quasi trent’anni
che non ci abito in modo stabile. Ci ritorno. É
vero. Ma, credetemi: non è la stessa cosa.
Dunque mi si chiede di essere napoletano, ed io li accontento. Anche
se non ricordo bene cosa significhi essere o fare il napoletano. Lo
faccio per compiacere e per ricordare a me stesso da dove provengo.
Però non sono sicuro che quello da me rappresentato sia un vero e
reale napoletano. Molto spesso mi ritrovo, come fanno anche molti
napoletani originali, a recitarne la parodia.
Per essere sicuro di fare il napoletano dovrei riprendere contatti
seri e duraturi con questa città. Anzi, per fare il me
napoletano dovrei avere almeno un confronto. Per esempio, prendere un
ipotetico altro me che in tutti questi anni non si sia mai
mosso da quella città. Solo così potrei soddisfare che mi sta
intorno e soddisfare, soprattutto, me stesso. Rappresentato e
rappresentazione coinciderebbero.
Ma così non è. E, in tutti questi anni, ho sempre dovuto, in qualche
modo, arrangiarmi. Per fare il napoletano o almeno esserlo
credibilmente, mi sono ritrovato ad accentuare tutto quello che
ritenevo fossero i caratteri di napoletanità in me presenti
(o residui). Con risultati alterni. Anche perché spesso ho dovuto, mio malgrado, difendere quella che io ritenevo essere la napoletanità
vera. A cominciare dalla pronuncia del dialetto, per proseguire fino
alla consistenza della pasta della pizza, finendo alla preparazione
del caffè.
Alla fine, però, mi ci sono abituato. E quando mi chiedono di farlo,
lo faccio. Cerco d'immedesimarmi alla meglio nel mio ruolo. Anzi devo
dire che, a volte, mi diverto. Infatti faccio passare per napoletani
modi e caratteristiche che sono mie personali e che, i napoletani
miei contemporanei, si guarderebbero bene dal fare propri.
Ma, a parte tutto questo inutile ragionamento (che a rigor di logica
va comunque completato), devo dire che, essendo costretto a fare il
napoletano, mi sono sovente confrontato con il presepe. In questo
caso, ho interpretato al meglio le mie origini. Come un vero conoscitore.
Ho infatti dimostrato infinita confidenzialità con i vari
personaggi, con le possibili disposizioni della scena, fino ad
immaginare me stesso come personaggio della rappresentazione
natalizia. Non un personaggio principale, ma uno che arriva magari da
fuori e si trova di fronte quel pò pò di situazione. Avrei sicuranente voluto
far parte di quel gruppo di mori introdotti nel presepio
napoletano proprio a seguito delle influenze dell'orientalismo.
Inutile dire che non mi sarebbe piaciuto avere le mie sembianze
attuali, da napoletano apparente, ma quelle di un moro reale.
Sono sicuro che anche lì, nell'atmosfera sacra e stagionale del
presepe, qualcuno mi avrebbe chiesto di essere qualcun altro. Magari un
re magio, un pastorello, un angelo con la scritta in latino. Vi devo
confessare, però, che questa volta mi opporrei. Se proprio non potessi
fare la parte del moro col turbante, opterei, considerata
l'eccezionalità della situazione e senza indugio alcuno, per quella
di un napoletano. E poi, con rispetto parlando, non sono nato a
Betlemme.
©
2013 Gianfranco Brevetto
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