C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

martedì 29 ottobre 2013

GELATI!

Quest’anno mi ha preso così! Non so il perché o quando la cosa abbia avuto inizio. A volte capita, mi dico, avere dei periodi in cui prende una fissa. Un’abitudine strana o inusuale, della quale  non posso fare a meno. Poi passa.
Di solito faccio altro. Cammino sulla pavimentazione stradale stando attendo a non mettere il piede sulle fughe, apro la porta sempre con la mano destra, entro in acqua esclusivamente col piede sinistro, conto fino a dodici prima di aprire gli occhi ogni mattina.
Dicevo, la mia compulsione attuale è di ritrovarmi tutti i giorni a saltare il pasto per andare, sempre nel solito posto, ad acquistare una coppetta di gelato allo yogurt. Da tre euro. Prenderei anche quella da due. Mi sembra, però, un po’ ristretta per poter competere col pranzo.
Per risultare imprevedibile, nella mia prevedibile ossessione momentanea, ci vado ad orari diversi. Dall’altra parte del bancone incontro sempre una coppia, che si alterna. Non ho capito bene se negli orari o nei giorni. Non so se si tratti di marito e moglie.
Per mesi mi sono limitato ad entrare e chiedere la solita coppetta da tre euro di solo yogurt. Lui o lei, mi guardavano come se mi vedessero per la prima volta. Questo è andato avanti per diverso tempo, diciamo un paio di mesi.
L’altro giorno sono entrato nella gelateria e il giovanotto, senza dirmi buon giorno perché da queste parti è così, mi ha chiesto:
- Il solito cono al cioccolato?
Sono rimasto qualche secondo senza parlare, indeciso se assecondarlo, poi ho preso coraggio e gli ho detto:
- No, vorrei una coppetta da tre euro al gusto yogurt.
- Mi scusi,  la confondevo con un altro signore che le somiglia.
- E questo signore viene ogni giorno?
- Si, come fa lei.
- Da tanto?
- Più o meno da quando viene lei.
Adesso cominciavo a spiegarmi il fatto che non mi riconoscessero, e cominciavo anche a giustificarli. C’era, quindi, un'altra persona che loro confondevano con me e, nell’incertezza, evitavano di pronunciarsi.
Mangiai  tranquillamente il mio gelato.
Poi mi assalirono due dubbi che conservo, nonostante sia passato del tempo, contrariato e senza potermi dar pace:
Primo. Se il giovanotto si è sbagliato solo perché io somiglio al signore del cioccolato più di quanto quest’ultimo somigli a me. Non solo, quindi, ho  un sosia, ma questi è più originale di me. Io appaio, a questo punto, solo una riproduzione di altri, con i quali ci si può confondere.
Secondo. E questo, a mente fredda, mi apparve il più grave. Questo signore, a cui io tanto somiglio, mangia gelati al cioccolato. Come è possibile? Avrei accettato anche di essere un sosia, ma non riuscivo a pensare ad una persona, che gli altri credevano me, mentre volgarmente leccava il suo cono al cioccolato.
Anche l’identità più incerta, in fondo, ha una sua dignità. A tutto c’è un limite.
Gianfranco Brevetto 2013 (diritti riservati)

sabato 19 ottobre 2013

RELAZIONI SOVRAFFOLLATE



 
 

Alcuni anni or sono,  ebbi l’onore d’intervenire nel corso di un importante consesso scientifico dedicato alla spinosa questione del perché solo la confettura d’arancia potesse fregiarsi dell’appellativo di marmellata.

In verità, l’invito che ricevetti qualche giorno prima, recitava in modo diverso. Si parlava di anomia speculare - questione altrettanto spinosa quanto inusuale - e sulla quale avevo cercato di prendere appunti per cercare d'intervenire in modo degno.

Ebbi la sensazione, lo confesso, che avessero confuso il mio nome con quello di qualche altro luminare dedito all’argomento agroalimentare. Non mi persi d’animo e quel giorno me ne stavo seduto al tavolo dei relatori, insieme ad altri sconosciuti. Tutti con una bella targhetta davanti con il nome scritto sopra.

Allora ero giovane e non potevo prevederne le conseguenze, ma il mio intervento fu, ora posso confessarlo, tra l’anomia del fiore d’arancio e la marmellata allo specchio.

Insomma, approfittando di un pubblico distratto, me la cavai agevolmente meritando anche qualche stentato applauso finale. Tanto quello, in certe occasioni, non si nega a nessuno.

Verso la fine dell’evento, che durò, compreso la pausa per il rinfresco, circa tre ore, me ne stavo seduto, guardando il pubblico numeroso e felicitandomi per lo scampato pericolo. Ce l’avevo fatta, ancora una volta, ad intervenire su questioni nelle quali mi ritenevo un perfetto ignorante e che mi lasciavano nella più completa indifferenza.

Quando sembrava che il tutto stesse terminando, si alzò un ragazzo di circa una ventina d’anni che, indicandomi col dito, mi chiese:

- L’ho ascoltata molto attentamente e devo dire che il suo ragionamento mi ha particolarmente toccato, In proposito vorrei chiederle: secondo lei qual è il numero perfetto per formare una coppia?

Sentivo lo sguardo di tutti sopra di me, io finsi di appuntarmi la domanda del ragazzo, su di un foglio che avevo lì d’innanzi. Guardai due volte il soffitto e mi schiarì la voce.

- Gentile amico, se le dovessi rispondere con la stessa logica che contraddistingue questo incontro, le direi che di coppie ce ne sono solo con due persone. Ma, guardandomi intorno, le posso dire che al giorno d’oggi, la coppia ideale non può fare a meno di corredarsi di una coppia di amanti, che sia speculare alla coppia stessa. Un duplicato che li rappresenta. Che fa le loro veci. Perché, caro giovanotto, l’assenza di regole – dissi scrutando i miei appunti – non esiste, ma produce altre regole. La gente dice di amarsi, ma si ama tramite l’amante, che è un sostantivo ed anche un participio presente. E se è presente vuol dire che compie l’atto, che c’è e non può mancare. Mi dica una cosa. Come chiamiamo la persona che amiamo…il mio…

-         Il mio amato!

-         Appunto, participio passato!

Gli applausi partirono spontaneamente.

Da quel giorno, la gente ebbe chiara in mente anche la questione della marmellata e della confettura.

 

© 2013 Gianfranco Brevetto


giovedì 10 ottobre 2013

IL GIORNO IN CUI LA MIA SCARPA COMINCIO' A SCRICCHIOLARE




Non ricordo tante cose di me. Né desidero farlo. Non ho agende e consulto il calendario solo quando è necessario. Diffido delle persone che prendono impegni da qui a qualche mese. Quei pochi appuntamenti che ho li ricordo a mente, e quelli che non ricordo e come se non fossero mai esistiti. L’averli dimenticati è indice della loro importanza.

Ma di tutte le date importanti, compleanni, ricorrenze, celebrazioni, ricordo solo un giorno, uno in particolare. Per quanto possa sembrare strano, è solo quel giorno che mi ha colpito, che ho ritenuto importante non perdere di vista. Dicevo, non mi era mai successo, i giorni belli o brutti ritenevo che facessero parte del passato, verso il quale, per scelta personale, non mi sono mai voltato.

Tempo prima avevo comprato al mercato delle scarpe. Alcuni oggetti ci ispirano simpatia da subito, quasi ci fossero appartenuti da sempre a noi e mai vorremmo lasciarli. Mentre per altri è diverso. Li sentiamo estranei. Anche se belli li abbandoniamo, con una scusa qualsiasi, da qualche parte. Ripromettendoci, sempre, di riprenderli in secondo momento. Ma, questo è il mistero, anche se l’istinto ce lo consiglia, non li buttiamo via mai.

Di quelle scarpe mi ero innamorato a prima vista. Mi piacevano. Le avevo da subito indossate ed erano divenute le mie preferite. Anzi ne avevo anche scoperto qualità impreviste, sulle quali non mi dilungo. Insomma tutto trascorreva per il meglio, ed anzi continuamente le controllavo temendo, con orrore, di scoprire qualche cedimento nella suola o nella tomaia. Ma, quelle scarpe, sembravano possedere una resistenza fuori del normale.

Improvvisamente il 28 ottobre alle ore 15,15, nell’atto di rientrare in casa, mi sembrò che la suola della scarpa sinistra, nell’istante di toccare il pavimento, una volta superata la soglia, emettesse come un piccolo cigolio, più che un cigolio una sorta di stridio, come un criiiii. La cosa mi sembrò impossibile. Continuai a camminare in casa e quel criii  piano piano divenne un cre cre, poi un cra e quindi cre cra. Al passo felpato del destro corrispondeva il cre cra del sinistro. Mi fermai, respirai profondamente. Detti la colpa al pavimento, quindi tornai in strada dove il cre cra persisteva attutito dai rumori di fondo.

Camminai a lungo, ma non riuscivo a distogliere il pensiero da rumore della suola, cre cra, cre cra, cre cra… Allora entrai in un bar per ordinare un caffè, cre cra cre cra.. Telefonai ad un amico, cre cra cre cra cre cra… Tornai a casa, mi tolsi le scarpe e guardai a lungo la suola ancora perfetta. M’infilai delle antipaticissime pantofole, in un’odiosa padella mi riscaldai la cena. La mangiai con una coppia di posate che mi avevano regalato e che avevo, più volte, pensato di lasciar andare nell’immondizia  alla prima occasione. Mi addormentai in quelle lenzuola color rosa pallido: ci avevo dormito con una donna insopportabile che, fortunatamente, non avevo più rivisto.

Era il 28 ottobre alle ore 23,00.

Prima di addormentarmi, ripensai alle mie scarpe. Quelle amate, senza bisogno di contare il tempo.

Mi avevano reso felice in un mondo imperfetto.

Comprai un’agenda. A malincuore.

 

© 2013 Gianfranco Brevetto

martedì 1 ottobre 2013

UNA DONNA PERFETTA


I
Sembrava una ragazzina sveglia. E lo era. A scuola tutto bene, genitori e maestri entusiasti. Ottimi voti, palestra due volte a settimana. Lezioni di pianoforte con la maestra Ada, postura irreprensibile, schiena dritta e mani poggiate con leggerezza sulla tastiera.
Alla mamma non restava che farsene un continuo vanto : “Mia figlia, una ragazza d’oro, un vero gioiello”, si figuri che sono andata a sentire il saggio di pianoforte. Mi sono seduta in prima fila, proprio davanti a lei. Mi sono commossa. Ah, la mia piccola una vera donnina, mi aiuta in casa come se fosse già un’adulta. Beato l’uomo che la sposerà".
Ma le lodi non venivano solo dalla madre, c’era anche la nonna, anzi tutti e quattro i nonni perché, per essere perfetti, non ne deve essere morto nemmeno uno. Il papà  parlava poco di lei, si scherniva e andava in un brodo di giuggiole al solo pensiero .
II
Insomma erano tutti contenti . Anche lei era contenta, ma non di lei. Era contenta perché vedeva tutti contenti e quindi credeva che la vita fosse fatta così. Una vita contenta tra i contenti, nel massimo ordine. A casa nulla era fuori posti, c’era un posto a tutto. La famiglia viveva in un sano ordine naturale. Per esempio, quando indossavano qualsiasi vestito, camicia, giacca, questi non apparivano mai sgualciti, anche a fine giornata. Ad agosto, il caldo non esisteva per loro. Una magrezza sobria e innaturale li proteggeva.
Perfetti. Tutti. In ogni occasione. Inutile dire che anche le acconciature erano perfette e, madre e figlia, non usavano mai truccarsi: erano magicamente deliziose anche al risveglio.
E tutto sarebbe andato nel  migliore dei modi, secondo il manuale dell’esistenza prevedibile e perfetta , se non fosse stato per un neo. Un piccolo neo. Ma in verità lei non sapeva se si trattasse di un neo o di una piccola voglia. Dell’esistenza di questo neo, lei era l’unica a conoscenza. Chiariamo subito che di nèi ne aveva, ma tutti erano distribuiti armonicamente sul suo corpo, tranne quello. Aveva osato posarsi sul lato interno dell’alluce e, anche se normalmente riparato tra le due dita del piede, pareva mostrarsi nei momenti meno opportuni. Per esempio, all’atto di provare un sandalo nuovo.
III
La ragazzina, se pur irreprensibilmente, appariva infastidita da questa insolita macchiolina. Preferiva dunque non mostrare mai i suoi piedini armoniosi e dalle forme delicate. In spiaggia, ad esempio, li teneva sempre leggermente nascosti nella sabbia.
Con l’andare degli anni, il pensiero del neo, di quella imperfezione, aveva finito per tormentarla. Aveva prima sentito il medico di famiglia, uno zio luminare. Questi le aveva consigliato un ciclo di pediluvi con bicarbonato. Successivamente, visto che la giovane non reagiva alla cura, si ricorse anche alla lampada abbronzante. Insoddisfatta, provò con impacchi di melone, infusi di coriandolo, sterco di capra, rugiada di tiglio. Nulla.
Ritenendosi in preda a forze sovrannaturali, si rivolse ad un religioso, il quale dichiarò la propria incompetenza in materia di nèi. Poi fu la volta di mago, che si limitò a predirle il futuro. Di queste rivelazioni non diremo nulla: per motivi di riservatezza e perché anticipazioni potrebbero essere in contrasto con la fine di questo breve racconto. Inoltre, il mago, in preda ad una vero e proprio parossismo di veggenza, non si limitò solo al futuro della cliente. Predisse anche quello dei genitori, dei nonni (in questo caso non fu difficile perché, nonostante il bell’aspetto, soffrivano già di gastrite folgorante), del portiere del palazzo, della maestra Ada, delle maestre di scuola, del parroco, del quartiere dove abitava, e così via. Fino al futuro di chi scrive che, dopo averci riflettuto, capì di essersi messo in un bell’impaccio da solo. Tuttavia, dopo un momento di smarrimento, l’autore decise d’inquadrare questo increscioso episodio nell’imprevedibile, interessante e oscura vita dello scrittore (che non è sempre compatibile con l’esuberanza dei maghi).
IV
La donna, perché oramai era divenuta tale, perse lentamente il suo proverbiale contegno e si affidò ad una serie di personaggi che non solo l’illudevano ma, dopo aver fallito, le infondevano anche un senso di colpa. Evidentemente dipendeva da lei, e solo da lei, il non voler guarire da quella grave imperfezione.
In ultimo, nel presepio della vita, si materializzò anche il santone, uno sciamano precisamente. Questi capì, nella sua esoterica intelligenza, che un chiacchierata con gli spiriti avrebbe certamente ricondotto a più miti pretese la podologica macchia.
A Bordo di una canoa, lo sciamano, approfittando di una trance, condusse la donna in un viaggio misterioso. Il viaggio durò diversi giorni e, quando tornarono, si leggeva sui loro volti sconvolti che il neo aveva resistito, indelebile.
V
Divenuta anziana la donna attese il suo novantesimo compleanno per lasciare questa terra. Lo fece per due motivi. il novanta è un numero divisibile per due, per tre, per cinque, per nove, per dieci ed è soprattutto cifra tonda, compimento delle decina. L’altro motivo è che se qualcuno avesse voluto giocare al lotto gli anni della sua vita, il novanta era l’ultimo numero utile. Si comportò dunque con cabalistico rispetto, rispecchiando, anche nell’aritmetica, la precisione della sua esistenza.
Arrivata nell’aldilà, si accorse subito che quel mondo non faceva per lei. Vi regnava infatti una gran confusione e non era come si racconta nell’al di qua, cioè tutto lindo, tinto  e ordinato. Per prima cosa non c’erano nuvole sulle quali camminare, niente vestiti bianchi e niente porte o portoni. Di conseguenza niente chiavi e portinai. Questo fatto le sembrò insopportabile, pensò di aver sbagliato posto, che qualcuno le avesse tirato un brutto scherzo. Per questo motivo si decise a chiedere informazioni.
VI
C’era lì un giovinetto seduto. Da alcuni dettagli si capiva che doveva essere uno di figuranti che appaiono nei racconti degli scrittori.
- Dove siamo? Chiese la donna.
- Nell’aldilà! Rispose annoiato il giovanetto.
- Siamo sicuri?
- Sì, certo. Mi lasci indovinare, signora, lei ha per caso un puntino nero sulla parte interna dell’alluce?
- E lei come fa a saperlo? E mentre lo diceva si assicurò che i piedi fossero coperti.
- Perché qui hanno tutti quel coso.
- Tutti?
- Tutti.
- Ma allora…
- Scommetto anche che lei ha passato tutta la vita cercando di toglierlo via …
- Si, è vero..
Il giovane scoppiò in una risata ora solenne ora isterica. Sembrava non riuscire più a fermarsi. La donna lo guardava turbata e impaurita. Il giovane continuava a ridere contorcendosi e asciugandosi gli occhi dalla lacrime che, nel ridere a crepapelle, gli scendevano sul viso. Poi sembrò calmarsi.
- Quindi, lei non ha mai capito cosa fosse quella macchia? Le chiese il giovane.
- Un neo, un piccolo insignificante neo. Cosa dovrebbe essere?
- Un neo?
- Sì un neo, e che altro avrebbe dovuto essere? D’altronde mi guardi, non le sembro una persona ordinata?
- E certo, quindi non ha mai riflettuto sull’origine di quella macchiolina?
- No. A dire il vero mi sembrava solo un fastidio. Una piccola zona colorata fuori posto. Il sintomo di un disordine che non ho mai tollerato.
- Ha detto bene!
- Cosa?
- Disordine!
- Lasci perdere quella parola…
- Vede che allora si trova nel posto giusto?
- E perché mai?
- Perché questo è il regno del disordine?
- Ma allora non siano nell’aldilà?
- Sì che ci siamo!
- E quella piccola macchia?
- Ma non ha ancora capito? E riprese a ridere a più non posso. Poi cercando di trattenersi riuscì appena a sussurrare:  È la sua coscienza! Signora, la sua coscienza!
© 2013 Gianfranco Brevetto