C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

mercoledì 27 novembre 2013

Quando io sono su, lei è giù!

 
 
 
 

L'idea che sottende questo racconto è una follia. Non potrebbe essere altrimenti. Anzi, da subito, confesso che ne trovo sconveniente la lettura e la sconsiglio.
Soprattutto per chi non ha mai messo le dita nel naso e per quelli che hanno una dizione impeccabile. Figurarsi poi se possono leggerla quelli che lavano la macchina il sabato o quelli dalla memoria infallibile.
Per leggere questo racconto occorre essere imperfetti. Qualora non vi trovaste in questa condizione favorevole, astenetevi dal continuare.
Per quanto folle, l'idea è però semplice ed elementare. Ovvia. Quindi l'accennerò appena, per timore di offendere i lettori.
Eccola: Se si viaggia ad altezze differenti, non ci s'incontra!
Qualcuno penserà subito ad altezze morali, culturali, di ceto e di censo. Non è così. Cancellate dalla vostra mente questa idea. Se non riuscite a farlo, anche in questo caso, non continuate a leggere.
Superata questa ulteriore difficoltà devo confessare, in tutta sincerità, che è mia pretesa e convincimento riuscire a dimostrare che gli uomini non sono disposti su di un piano orizzontale, ma si spostano liberamente in alto e in basso.
A questo punto sono io a chiedervi di non proseguire. Lasciate a me solo questa idea e la motivazione per cui essa è divenuta un solido convincimento personale.
Come? Siete ancora qui?
Allora andiamo avanti.
Ho un'amica cara, Ada, con la quale non riusciamo ad incontrarci mai. Siamo amici da anni, parliamo spesso e con piacere, ci confidiamo, ci aiutiamo nei momenti difficili. A questa apparente relazione normale si devono, però, aggiungere alcuni piccoli particolari. Forse del tutto ininfluenti per i più.
Non siamo mai andati a cena insieme, non abbiamo mai fatto una passeggiata affiancati. Non ci siamo mai guardati negli occhi, mai abbracciati. Baciarsi, poi, non è nemmeno pensabile.
Questa donna, infatti, non l'ho mai vista. Non perché non esista. Anzi, di questo ne sono sicuro. Ciò che realmente m'impedisce d'incontrarla è che lei è su ed invece io sono giù. E quando io sono su lei è giù. Cioè, noi non c'incontriamo perché io mi trovo ad un'altezza che non combacia mai con quella in cui si trova lei.
Infatti quando la chiamo o lei mi chiama al telefono, io le chiedo: Ada dove sei? E lei mi dice: Su.
In quell'istante io alzo gli occhi al cielo e sono sicuro che anche lei, in quello stesso istante, guarda in basso.
Ma niente da fare. Vediamo solo un piccolo puntino in lontananza e, se prendo un cannocchiale potente, riesco a vedere anche una manina lontana che mi fa ciao ciao.
La cosa più strana è che io, come lei, riusciamo a vedere altra gente che però, spesso, non è quella che c'interessa. State certi: Tutta questa grande confusione di spazi non è una cattiveria. Le disposizioni sono causali e questo ha i suoi pregi e i suoi difetti.
Per esempio c'è un paese strano in cui parte degli abitanti sono su e parte giù (per il sindaco fanno a turno), lo stesso accade per intere famiglie, per giocatori di briscola, per amanti, per padri e figli, madri e nonne. Insomma, e vi prego di crederci, è come se si fosse su di un'enorme parete, attaccati come dei quadri.
I primi tempi, molti si meravigliavano di questa situazione, poi , come me e Ada, ci abbiamo fatto l'abitudine. Adesso, ci chiediamo dove sei solo per un'assurda curiosità.
-Dove sei ?
- Giù! E io? Indovina?
- Su
- Ma ieri eri su!
- Ma solo per un attimo te lo assicuro! E tu cosa facevi giù?
- Niente mi sono svegliato qui!
Vi devo fare un'ultima confessione.
Io e Ada, però, segretamente nutriamo una speranza: vedendo l'andazzo che c'è in giro, siamo quasi sicuri che, prima o poi, un errore del destino ci farà incontrare.

© 2013 Gianfranco Brevetto
 
 
 
 
 


domenica 24 novembre 2013

L'INNOMINABILE


 
 




                                                  ......dedicato ad un'amica il cui nome finisce per "a".
 

Tra i tanti dubbi della sua vita, Clementina quella volta sembrava non aver avuto alcuna esitazione.
Alla voce "situazione sentimentale" di facebook aveva indicato: relazione complicata. La cosa le era sembrata naturale come scrivere il suo nome. Di una cosa era stata  da sempre sicura: lei era un persona complicata e, di conseguenza, complicate dovevano essere tutte le cose che faceva. Quindi anche le sue relazioni sentimentali. Anzi, con l’andare del tempo, di quel definirsi complicata ne era divenuta fiera, guai a chi osava metterlo in dubbio.
Tutte le volte che Clementina aveva cercato di capirci qualcosa, si era trovata di fronte a garbugli tali che le avevano fatto pensare che, la sua complicazione, era un dato di fatto.
"Ecco. Sono fatta così! Quindi è inutile che mi capisca o che mi si  cerchi di capire. Sono complicata! E non è mica colpa mia. Complicati si nasce, non so se sia un privilegio o una dannazione. Non riesco a darmi una risposta: è una risposta  complicata!"
Anzi, col passare del tempo, riteneva che le situazioni più semplici, o a prima vista semplificabili, non facessero per lei. Le apparivano dubbie, infide. Per questo motivo,  si era accompagnata da sempre con persone che, in apparenza, le parevano complicate, così, almeno, avrebbero avuto con lei dei punti in comune. 
E a persone complicate, si addiceva bene anche una relazione complicata.
Neanche a dirlo, Clementina aveva una vita complicata. Lavori complicati, svaghi complicati, leggeva solo libri che riteneva complicati.  
La complicazione del suo tempo esige qualche rigo a parte.
Le giornate di Clementina non erano mai come quelle degli altri. Le sembrava che questi benedetti altri, trascorressero  giorni sereni e lineari, nei quali, di tanto in tanto, poteva succedere qualcosa di poco conto.
I giorni di Clementina, invece, erano eccezionalmente complicati, tanto che anche lei faceva fatica ad organizzarli. Dal mattino fino a sera, le sue ore erano di una complessità imparagonabile. 
A volte non le restava altro che attendere che trascorressero, tanto queste divenivano fitte ed imperscrutabili.
Neanche a dirlo, aveva un’agenda complicata. Anzi ne possedeva più di una, con l’intento di semplificare alcuni orari che non si sarebbero mai incastrati tra di loro.
Ma di tutta questa complicazione, in fin dei conti, Clementina era contenta. Le serviva per spiegarsi tante cose e un po' la utilizzava come alibi. Se le cose erano talmente complicate e complesse, lei si sentiva autorizzata a rifiutarle, a sopportarle a malapena, a infastidirsene.
Marcotullio, il fidanzato di Clementina in questa relazione complicata, non si sentiva, a volte, sufficientemente complicato e, quasi quasi, voleva dire a Clementina di non sentirsi all'altezza di tante complicazioni.  Queste, poi, si andavano a sommare ad altre complicazioni. Ad esempio, le sue. 
A dir la verità, ma proprio a dirla tutta, lui si sentiva attratto da Clementina. Le piaceva tantissimo suo nome, i suoi capelli lunghi e tormentati, il suo sorriso e la sua voce. Anche se tutto appariva complicato, lui voleva solo dire a Clementina che provava per lei un certo sentimento.  Ma questo sentimento non si poteva nominare: avrebbe complicato le cose. Comunque, Marcotullio pensava che, anche se non si nominava, quel sentimento sempre tale e quale rimaneva. Ne aveva parlato più volte a Clementina, ma lei aveva detto che, tutto questo discorso, le appariva oltremodo complicato.
Un giorno, Marcotullio era seduto, fianco a fianco a Clementina, su di un treno sul quale erano saliti per fare una cosa complicatissima, e che adesso non vi sto a spiegare. Guardandola si accorse che, da quando anni addietro si erano conosciuti , non l'aveva mai baciata. E questo, neanche a dirlo, per evitare complicazioni.
Ma quella volta, si fece coraggio. Si avvicinò e appoggiò le sue labbra su quelle di Clementina. Semplicemente. Durò un attimo, poi tornarono alle loro esistenze complicate. Ma chi scrive è sicuro che, in quell'attimo, pensarono entrambi a quel sentimento innominabile.
E, siccome nominarlo sembrava la cosa più semplice da fare, evitarono di farlo.
 
 

            © 2013 Gianfranco Brevetto



 
 
 


venerdì 22 novembre 2013

CANNIBALI !


Renato è un vegetariano convinto, quindi, sul momento non fece caso a quella che poteva sembrare una battuta innocente.

–Posso assaggiare il suo dito?

La richiesta proveniva, addolcita con una vocina minuta e serena, da una signora che le si era accostata alla fermata del bus.

- Posso assaggiarne almeno un pezzetto? Insistette quella donna minuta anche nell’aspetto.

Renato sorrise. La guardò e poi tornò a scrutare in lontananza, in attesa d’intravedere da lontano il 22 barrato.

- Mi scusi signore, sia gentile, mi farebbe assaggiare anche solo una falange del suo dito?

Renato guardò di nuovo la signora e finse di stare al gioco.

- Le assicuro che la mia falange non è un granché. Provi da quel giovanotto lì di fronte, lui è più giovane.

- No, io vorrei assaggiare proprio la sua! Sono un’intenditrice e le assicuro che il suo dito è un vera prelibatezza.

- Ma su signora, non mi faccia ridere. Ecco sta arrivando il bus. La saluto.

- Io non voglio far ridere proprio nessuno e, con le buone o con le cattive maniere, io mangerò il suo dito!

- La prego signora, non insista, devo prendere il bus. E poi, perché dovrei cederle il mio dito?

- Guardi che mi basta solo una falange…

- Sì, appunto, perché dovrei permetterle di mangiare la mia falange?

- Perche sono un cannibale!

Renato si scostò di qualche passo. E con due balzi improvvisi salì su un bus che stava, proprio in quel momento, richiudendo le porte. Non era il 22 barrato. Ma chi se ne importa, sarebbe sceso alla fermata successiva. Mentre cercava di dimenticare al più presto quella buffa signora, un ometto sulla sessantina si accostò a lui e fingendo di dover scendere, gli sussurrò all’orecchio:

- Non può immaginare come gradirei mangiare almeno l’alluce del suo piede destro.

Renato fece appena in tempo a voltarsi che quell’ometto era già sparito.

Renato scese alla prima fermata, ripromettendosi di salire sul 22 barrato che seguiva nella  fila indiana nel traffico cittadino.

- Ha visto quanti ce ne sono? Gli disse un signore dal cappotto viola.

- Di cosa? Rispose frettolosamente.

- Di cannibali! Oggi è davvero impossibile andare in giro!

- Ma io non ci credo.  Si tratta di uno scherzo.

- No guardi che è proprio così, le consiglio di prestare attenzione.

- Va bene, stia tranquillo, starò attento.

Renato cercava di allontanarsi frettolosamente quando, quello stesso signore, gli si avvicinò. A guardarlo bene, aveva un volto diverso da tutte quelle strane persone incontrate nella baraonda cittadina. Mostrava un interesse, quasi morboso per lui. Renato, questa volta, invece di sentirsi infastidito era come attratto, affascinato.

- Non stia a sentire quei cannibali da poco conto, di mi disse a voce bassa.

- E perché dovrei?

- Mi ascolti, la conosce la storia del dottor Faust?

- Certo! Ma quello non era un cannibale era un demone.

- Io non sono né l’uno né l’altro.

- Bene, mi fa piacere, ma adesso ho altro da fare.

- Fermo, Io potrei essere uno come lei.

- Certamente , adesso però…

- Anzi, sono sicuramente come tanti suoi contemporanei

- Bravo! Io vado…

- A me non interessa la sua anima..

- Ammesso che io la abbia … Ma insomma, cosa vuole da me?

- Ecco, le lascio una piccola lista. In fondo c’è il mio indirizzo, la attendo!

Renato mise in tasca quel foglietto frettolosamente. Lo conservò.

La sera, rientrato a casa, si avvicinò alla finestra. Nell’ultimo chiarore del giorno lesse:

“ I tempi cambiano (e poi, chi ha detto che i tempi siano mai esistiti?) Lei, come altri, possiede alcune cose, del tutto irrilevanti, che non le servono più a nulla. Molto probabilmente alcuni miei, e suoi, simili gliele hanno già sottratte. La prego dunque di consegnarmi quel che le resta del coraggio, del senso che attribuiva alle cose, della voglia di vivere, dei sentimenti, della dignità.

Cordialmente.”

Renato ripiegò il biglietto. Fissò le strade che si svuotavano rapidamente. Aveva voglia di piangere. Ma, anche quella volta, non riuscì a farlo.

 

 © 2013 Gianfranco Brevetto

 

 

 



 

 



giovedì 14 novembre 2013

Albert Camus, l’ extraordinaire étranger .


Albert Camus, nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni dalla morte, continua ad essere tra gli autori più citati. Frasi, singoli periodi, tratti variamente dai suoi scritti, fanno bella mostra nelle epigrafi di numerosi testi. Una nota che fa riferimento a lui, è sempre un elemento in più per la nobilitazione di uno scritto. Non mancano, inoltre, frequenti apparizioni di sue citazioni sui social network dove, come capita per altri autori, più o meno famosi, le frasi autentiche mi mescolano a una congerie di pseudocitazioni e falsi palesi.
La presenza in rete, da una parte, è certamente un segno di popolarità, di apprezzamento, per i suoi scritti. Ma per lui, come per altri autori, si ripete, questa comporta una conoscenza parziale e selettiva delle sue opere, una parcellizzazione e polverizzazione, con rischi di decontestalizzaizoni e frantendimenti. È vero, questa è una problematica che non riguarda solo Camus e che fa parte di quel complesso rapporto tra letteratura e media, in particolare con i social network. Essa vedrà i suoi effetti palesarsi solo nei prossimi anni, quando si valuteranno, le conseguenti le scelte degli autori, degli utenti delle rete e dell’editoria. Oggi noi possiamo solo segnalare, a livello di semplici indicazioni, la necessità di leggere con attenzione questi futuri sviluppi.
Nel 1953 Roland Barthes pubblicò un saggio, considerato per certi versi, uno degli scritti fondamentali di questo autore. Ci riferiamo a Le degré zèro de l’écriture. In questo scritto Barthes, teorizza una letteratura liberata dal linguaggio letterario. Barthes ha in mente una scrittura atonale, trasparente, piatta, Una scrittura a-letteraria, in cui tutte le caratteristiche sociali e tecniche del linguaggio scompaiano per cedere il posto ad uno stato neutro o inerte della forma.
Barthes chiama questo tipo di scrittura écriture blanche, traducibile come scrittura minima, neutra, con la quale appunto lo scrittore riesce a sganciarsi dalle gabbie stilistiche, per concentrarsi ed annodarsi ai contenuti.
Nella posizione di Barthes si riscontrano anche alcune problematiche proprie della lingua francese che, come quella italiana, si prestano a costruzioni stilistiche al limite del barocchismo fine a se stesso. Per Barthes il modo per eccellenza de l’écriture blanche è l’indicativo. Il discorso si riduce ad espressioni di estrema semplicità e naturalezza diretta..
Barthes vede ne Lo Straniero di Camus, soprattutto nel primo capitolo, l’opera inaugurale de l’écriture blanche e, più in generale del nouveau roman. La voce di Camus diventa quindi, per Roland Barthes, l’emblema di una corrente letteraria che si svilupperà in Francia, e non solo, a partire dagli anni ’50. Ad essa fanno sicuramente riferimento anche Mauriche Blanchot, Jean Cayrol, o anche scrittori che l’hanno preceduto, e ci riferiamo in particolare ad Emmanuel Bove. In tempi recenti è opinione comune che si possa ritrovare l’écriture blanche in altri autori d’oltralpe come Patrick Modiano.
Siamo con Camus ad un ritorno all’origini. Ne Lo Straniero vi è un “io assente a se stesso, ai suoi propri affetti, una coscienza dissociata dell’identità sociale”. Il che non significa indifferenza, mancanza di partecipazione. Non era questa certamente l’intenzione di Albert Camus. Lo spogliarsi, il denudarsi, è, in primo luogo, l’atto di umanità per eccellenza, è quel solidarie-solitaire proprio di un’esistenza scevra da ogni legame inutile e ridondante. Nella vita come nella letteratura.
Come nella poesia l’étranger di Baudelaire, apparentemente Camus si rivolge altrove, più lontano, più in là. Oltre:
 
- Qui aimes-tu le mieux, homme énigmatique, dis ?
ton père, ta mère, ta soeur ou ton frère ?
- Je n'ai ni père, ni mère, ni soeur, ni frère.
- Tes amis ?
- Vous vous servez là d'une parole dont le sens m'est
resté jusqu'à ce jour inconnu.
- Ta patrie ?
- J'ignore sous quelle latitude elle est située.
- La beauté ?
- Je l'aimerais volontiers, déesse et immortelle.
- L'or ?
- Je le hais comme vous haïssez Dieu.
- Eh ! qu'aimes-tu donc, extraordinaire étranger ?
- J'aime les nuages... les nuages qui passent... là-bas...
là-bas... les merveilleux nuages !
 
Camus ci ha lasciato delle indicazioni sulle sue scelte tecniche. Nella sua ultima intervista, nel dicembre del 1959, quando si riferisce al suo racconto La Chute e al possibile rapporto col nouveau roman. Ne La Chute, Camus volutamente utilizza tecniche, per alcuni versi, proprie del teatro. E' lui stesso a chiarire che il suo lavoro di scrittore consiste nell’adattare la forma al soggetto.
Adattamento non è scomparsa come diceva Barthes. In Camus è comunque centrale la questione del problema stilistico separato ed a servizio della letteratura. Come è chiaro in lui la necessità di tener distinta la vita dalla letteratura: “Io non voglio che la mia vita materiale dipenda dai miei libri, così che i miei libri non dipendano da quella.”
Ne extraordinaire étranger, Camus compie una precisa scelta che lo porta ad utilizzare quella particolare forma che sarebbe divenuta, per Barthes, l’écriture blanche per antonomasia. L’estraneità da se stesso, non può che esprimersi con il minimo stilistico e letterario. La paratassi, la litote, la scomparsa del personaggio.
 
 
© 2013 Gianfranco Brevetto




mercoledì 6 novembre 2013

L'écriture zéro - Cento anni dalla nascita di Albert Camus


 
 
Non è un caso se la vita di uno dei più grandi scrittori del novecento, Albert Camus,  si può leggere come un palindromo. Forse anche lui avrebbe voluto così.  Sembra infatti possibile raccontare gli avvenimenti dei suoi 47 anni, muovendosi, indifferentemente, da un capo o dall'altro della sua intensa esistenza. Per esempio, iniziando dalla tragica morte avvenuta nel gennaio del 1960. Un incidente sulla strada che lo conduceva da Lourmarin a Parigi. Sarebbe dovuto rientrare in treno, si era però convinto ad accettare un passaggio dal suo amico-editore Gallimard.

“Troppo giovane” avrebbe esclamato la madre, quando le comunicarono la notizia.

Oppure si potrebbe si potrebbe raccontare il tutto partendo dall’infanzia algerina. Come ha fatto lui stesso nel suo libro uscito postumo Il Primo Uomo. Il  manoscritto era nella sua borsa al momento della morte. Una circostanza che suggella e tiene insieme i due estremi di questo possibile palindromo biografico.

Ricordo perfettamente la prima volta che io lessi Lo Straniero. Ne ricordo il luogo e l’ora. Avevo ventiquattro anni.

Avevo già incrociato, come autore s’intende, Camus alle scuole superiori. L’antologia che ci facevano usare era suddivisa in quattro volumi, uno era quello della letteratura straniera. Ma sapevamo, dall'inizio, che difficilmente sarebbe stato usato. Non ci si arrivava, al massimo si leggeva Pirandello frettolosamente, a fine maggio. Così che, tutti concentrati sugli autori italiani, la letteratura straniera diventava una sorta di promemoria, un indice di autori da approfondire in un altro luogo ed in un altro momento. Erano quelli gli anni di piombo della nostra Repubblica.

Ero ora in quell’altro momento, in quell’altro luogo. La sera de Lo Straniero ero a letto, una brandina utilizzata per cedere il posto a ospiti di passaggio. La luce fioca tenuta volontariamente bassa, paura di disturbare.

“Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile : « Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.» Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier."

Oggi, forse ieri, funerali domani, forse era ieri. La successione logica, l’ordine degli eventi è accompagnato dall’avverbio forse. Una parte dell’incipit, poi, coincide con la scarna scrittura di un telegramma.

Il tema dello sfasamento temporale, ritorna ne  Il Primo Uomo, Il protagonista Jacques Cormery, che è lo stesso Camus. Jacques parte alla ricerca del padre deceduto nella Grande Guerra. Si ritrova nel cimitero militare di Saint-Brieuc, nel nord della Francia. Qui Jacques-Albert si fa indicare dal guardiano la tomba del padre  e scopre qualcosa che non gli era mai apparsa chiaramente prima:

“Una volta lette le date della nascita e della morte 1885-1914 fece un rapido calcolo: ventinove anni. Subito un’idea lo impressionò fino a scuoterlo nel profondo. Lui ne aveva quaranta. L’uomo sepolto sotto la pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di lui. E il fiotto di tenerezza e di pietà, che di colpo gli riempì il cuore, non era il sentimento che porta il figlio verso il padre scomparso, ma la compassione confusa di un uomo  davanti a un bambino ingiustamente assassinato. Qualcosa non quadrava  nell’ordine naturale della cose e, a dire il vero, non c’era ordine ma solamente follia e caos là dove il figlio era più vecchio del padre.”

Il racconto delle radici so mescola con quello di un immenso oblio, di un recupero postumo di una memoria. Jacques diventa  il primo uomo. Senza eredità. Tra lui ed il passato c’è una frattura, non solo temporale. Un vuoto. In questa assenza deve costruire, o meglio ricostruire,  il senso della sua esistenza. Ben sapendo che per questo recupero non si può più avvalere delle cronologie , della biografie, della storia e delle storie, della progressione ordinale degli eventi.

La normalità può confondersi, e spesso lo fa, con l’assurdo. Che è là ad aspettare, come dice Camus, all’angolo di qualsiasi strada.

Camus è stato, e per certi versi lo è ancora, un personaggio scomodo, schivo, ossessionato negli ultimi anni dall’idea della felicità. L’infanzia dei quartieri poveri algerini, il successivo trasferimento in Francia all’inizio degli anni ’40, la frequentazione degli ambienti letterari ed artistici, il premio Nobel. Sono solo alcune tappe.

Lo Straniero è datato 1942, uscito  a poca distanza da Il mito di Sisifo. Queste due opere, insieme a Caligola e a Il Malinteso, costituiranno il cosiddetto ciclo dell’assurdo. L’assurdo per  Camus è la stessa separazione dell’uomo dal mondo, una sensibilità più che una questione filosofica. “Non voglio mentire – scriveva Camus - , nè che mi si menta, voglio portare la lucidità fino alla fine.” Il mentire è separarsi dal mondo. “È nella misura in cui io mi separo dal mondo che ho paura della morte.”

L’assurdo è appunto nella separazione tra bisogni ideali e vita reale. In questo divorzio il vivere non appare né razionale né familiare. Si tratta di un divorzio perché l’assurdo non nasce dalla comparazione tra elementi ma dal loro confronto. L’uomo si trova denudato di fronte a questa assurdità, ma con essa deve convivere. É l’unico senso che può dare alla propria esistenza.
 
© 2013 Gianfranco Brevetto