Non è un caso se la vita di uno
dei più grandi scrittori del novecento, Albert Camus, si può leggere come un palindromo. Forse
anche lui avrebbe voluto così. Sembra
infatti possibile raccontare gli avvenimenti dei suoi 47 anni, muovendosi, indifferentemente, da un
capo o dall'altro della sua intensa esistenza. Per esempio, iniziando dalla
tragica morte avvenuta nel gennaio del 1960. Un incidente sulla strada che lo
conduceva da Lourmarin a Parigi. Sarebbe dovuto rientrare in treno, si era però
convinto ad accettare un passaggio dal suo amico-editore Gallimard.
“Troppo giovane” avrebbe
esclamato la madre, quando le comunicarono la notizia.
Oppure si potrebbe si potrebbe
raccontare il tutto partendo dall’infanzia algerina. Come ha fatto lui stesso
nel suo libro uscito postumo Il Primo Uomo. Il
manoscritto era nella sua borsa al momento della morte. Una circostanza
che suggella e tiene insieme i due estremi di questo possibile palindromo
biografico.
Ricordo perfettamente la prima
volta che io lessi Lo Straniero. Ne ricordo il luogo e l’ora. Avevo
ventiquattro anni.
Avevo già incrociato, come autore
s’intende, Camus alle scuole superiori. L’antologia che ci facevano usare era
suddivisa in quattro volumi, uno era quello della letteratura straniera. Ma
sapevamo, dall'inizio, che difficilmente sarebbe stato usato. Non ci si
arrivava, al massimo si leggeva Pirandello frettolosamente, a fine maggio. Così
che, tutti concentrati sugli autori italiani, la letteratura straniera
diventava una sorta di promemoria, un indice di autori da approfondire in un
altro luogo ed in un altro momento. Erano quelli gli anni di piombo della
nostra Repubblica.
Ero ora in quell’altro momento,
in quell’altro luogo. La sera de Lo Straniero ero a letto, una brandina
utilizzata per cedere il posto a ospiti di passaggio. La luce fioca tenuta
volontariamente bassa, paura di disturbare.
“Aujourd’hui, maman est morte. Ou
peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile : « Mère décédée.
Enterrement demain. Sentiments distingués.» Cela ne veut rien dire. C’était
peut-être hier."
Oggi, forse ieri, funerali
domani, forse era ieri. La successione logica, l’ordine degli eventi è
accompagnato dall’avverbio forse. Una parte dell’incipit, poi, coincide con la
scarna scrittura di un telegramma.
Il tema dello sfasamento
temporale, ritorna ne Il Primo Uomo, Il
protagonista Jacques Cormery, che è lo stesso Camus. Jacques parte alla ricerca
del padre deceduto nella Grande Guerra. Si ritrova nel cimitero militare di
Saint-Brieuc, nel nord della Francia. Qui Jacques-Albert si fa indicare dal
guardiano la tomba del padre e scopre
qualcosa che non gli era mai apparsa chiaramente prima:
“Una volta lette le date della
nascita e della morte 1885-1914 fece un rapido calcolo: ventinove anni. Subito
un’idea lo impressionò fino a scuoterlo nel profondo. Lui ne aveva quaranta.
L’uomo sepolto sotto la pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di
lui. E il fiotto di tenerezza e di pietà, che di colpo gli riempì il cuore, non
era il sentimento che porta il figlio verso il padre scomparso, ma la
compassione confusa di un uomo davanti a
un bambino ingiustamente assassinato. Qualcosa non quadrava nell’ordine naturale della cose e, a dire il
vero, non c’era ordine ma solamente follia e caos là dove il figlio era più
vecchio del padre.”
Il racconto delle radici so
mescola con quello di un immenso oblio, di un recupero postumo di una memoria.
Jacques diventa il primo uomo. Senza
eredità. Tra lui ed il passato c’è una frattura, non solo temporale. Un vuoto.
In questa assenza deve costruire, o meglio ricostruire, il senso della sua esistenza. Ben sapendo che
per questo recupero non si può più avvalere delle cronologie , della biografie,
della storia e delle storie, della progressione ordinale degli eventi.
La normalità può confondersi, e
spesso lo fa, con l’assurdo. Che è là ad aspettare, come dice Camus, all’angolo
di qualsiasi strada.
Camus è stato, e per certi versi
lo è ancora, un personaggio scomodo, schivo, ossessionato negli ultimi anni
dall’idea della felicità. L’infanzia dei quartieri poveri algerini, il
successivo trasferimento in Francia all’inizio degli anni ’40, la
frequentazione degli ambienti letterari ed artistici, il premio Nobel. Sono solo
alcune tappe.
Lo Straniero è datato 1942,
uscito a poca distanza da Il mito di
Sisifo. Queste due opere, insieme a Caligola e a Il Malinteso, costituiranno il
cosiddetto ciclo dell’assurdo. L’assurdo per
Camus è la stessa separazione dell’uomo dal mondo, una sensibilità più
che una questione filosofica. “Non voglio mentire – scriveva Camus - , nè che
mi si menta, voglio portare la lucidità fino alla fine.” Il mentire è separarsi
dal mondo. “È nella misura in cui io mi separo dal mondo che ho paura della
morte.”
L’assurdo è appunto nella
separazione tra bisogni ideali e vita reale. In questo divorzio il vivere non
appare né razionale né familiare. Si tratta di un divorzio perché l’assurdo non
nasce dalla comparazione tra elementi ma dal loro confronto. L’uomo si trova
denudato di fronte a questa assurdità, ma con essa deve convivere. É l’unico
senso che può dare alla propria esistenza.
© 2013 Gianfranco Brevetto
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