C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

lunedì 28 novembre 2016

LA LEZIONE DI PROVA CHE TI CAMBIA LA VITA


È da un po’ di tempo che mi annoio. Qualche ora. Sto pensando, quasi  quasi, di iscrivermi ad un corso di non so cosa. In tutti i casi,  sarebbe meglio una lezione di prova. Tanto per vedere chi c’è.
Ho cercato in giro qualcosa d’interessante, ci sono tanti corsi e tutti mi sembrano indispensabili. In verità, sarei un po’ in ritardo per l’iscrizione, ma mi accetterebbero lo stesso.  
Potrei iniziare mercoledì, alle 19, con la lezione di prova, c’è anche il maestro. Sarei quindi impegnato tutti i mercoledì e venerdì. Si tratta di un percorso molto bello e progressivo. Ma non so decidermi.
Ho anche una certa fretta, aumentata dalla noia. Sì un corso , a questo punto dell’anno e della vita, ci starebbe proprio bene. Voglio conoscere gente nuova, rilassarmi, impegnarmi e soprattutto poter dire agli altri che ho iniziato a frequentare un corso. Certo. Però per far più bella figura, e per destare interesse e invidia, dovrebbe essere anche un corso particolare, di quelli che gli altri non ci hanno mai pensato.
Una novità, qualcosa di strano insomma! Sì, sì, si, stavolta farò proprio il corso che mi cambierà la vita. Imparerò finalmente come si fa e diventerò esperto. Magari acquisterò qualche potere magico, soprannaturale. Tutti rimarranno a bocca aperta quando dirò a cosa mi sono iscritto.
Ma di cosa? Prima che mi ponessi, di nuovo, questa domanda ho capito che per me era indifferente. L’importante era stupire. A ben pensarci qualcosa di culturale e di sensuale, di esotico e di esoterico, di ambientalista e di animalista, di teorico e di pratico. Stupirò tutti e me stesso.
La mia amica Ignazia di anni 56, casalinga che recentemente ha scoperto di essere in sovrappeso, si fa chiamare Mimma, perché Ignazia va da sé che è intollerabile. Mimma ha frequentato, nel corso di quest’anno bene 22 corsi, distribuiti tra primo, secondo e terzo quadrimestre. È una vera esperta nel settore. Lei sostiene che nessuno di questi corsi l’abbia soddisfatta, in quindici si è fermata alla sola lezione di prova.
Mimma sostiene di soffrire di fame nervosa ed ha appena iniziato una dieta ayurvedica. Ho notato che possiede tre bottiglie di amaro in un mobile pensile della cucina.
Lei mi ha dato un’ottima idea. Geniale nel vero senso della parola. Si tratta di un corso dove s’insegna a costruire le lampade di Aladino. È un brevetto tedesco e non bisogna dubitarne. Sono previsti anche lauti guadagni se uno, poi, si mette in proprio.
Mimma mi ha convinto ed oggi sono andato alla prima lezione. Quella di prova. Ambiente simpatico, maestro simpatico, luci soffuse, profumi d’incenso. Tutto mi sembrava ideale.
Il maestro ci ha fatto accomodare in cerchio (in questi ambienti si usa così) e ci ha iniziato a spiegare le finalità del corso (che bravo, si vede proprio che è un maestro che sa tutto!). Ad un  certo punto ho avuto bisogno di fare pipì. Cosi ho chiesto dov’era il bagno e ci sono andato.
Nel corridoio c’era uno scatolone dal quale fuoriuscivano degli oggetti che sembravano proprio delle lampade come quelle di Aladino. Non ho saputo resistere e ne ho presa una. Mi sono infilato nel bagno e l’ho incominciata a sfregare.
Dopo un po’, come era da prevedere, è uscito un piccolo Genio. Anzi, a ben guardare, si trattava di una Genia,  molto carina. Abbiamo parlato per qualche minuto, poi lei mi ha proposto di fuggire insieme.
- E la pipi? Le ho chiesto io.
- La farai altrove! Mi ha risposto saggiamente lei.  

© 2016 Gianfranco Brevetto

martedì 15 novembre 2016

A NOI BASTA IL NOSTRO TEMPO

Evidentemente oggi è una giornata molto particolare.
Ho telefonato al mio amico Forlimpo Filippo, di anni 52, attualmente in cerca di prima occupazione,  per chiedergli come stava. Non mi ha lasciato nemmeno finire la domanda e mi ha detto che aveva molto da fare: era un periodo di tanti impegni da non lasciargli nemmeno un minuto di riposo. Mi ha parlato per circa un’ora delle tante cose che doveva o avrebbe dovuto fare, improrogabili quanto indefinite. Abbiamo poi interrotto  la telefonata perché aveva, nemmeno a dirlo, da fare.
Ho telefonato quindi a Mascarano Terenzia, di anni 42, nota per aver più volte disturbato la quiete pubblica per la sua risata incontenibile. Forse era il suo compleanno. Mi ha risposto la figlia e mi ha detto che la madre era , in quel momento, occupata e che avrebbe avuto impegni per tutta la giornata. Ho deciso di uscire, per fare due passi e godermi la bella stagione.
In ascensore ho incontrato una persona anziana, il signor Morotti Aldo, classe 1926, ex alpino. Il signor Morotti Aldo, di fu Milziade e fu Vittoria Contapassi, era da qualche anno pensionato e, apparentemente, a riposo. Si è innervosito perché l’ascensore ci metteva troppo tempo a scendere dal secondo piano, mi ha detto che sarebbe dovuto andare alla posta, poi alla banca, poi al comune, poi allo sportello invalidi, poi all’inaugurazione di un negozio di pianoforti, poi a scuola di suo nipote, poi al supermercato, poi in palestra per fare la ginnastica dolce per rilassarsi. Non si è potuto intrattenere nemmeno un secondo in più (gli avevo proposto un caffè al bar sottocasa)  perché aveva da fare assai.
Ho incrociato in strada, De Marcellis Paride, mio ex compagno di scuola, invecchiato prematuramente a causa di un matrimonio finito per cause ancora da accertare e, a lui, ignote. In un primo momento ha finto di non riconoscermi, poi si è fermato indicandomi la sua auto in sosta e, mentre freneticamente muoveva l’indice verso un berlina color caco che doveva essere la sua, mi diceva che doveva andare con urgenza a prendere uno zio che si era sentito male mentre andava dal dentista e che, mentre sveniva, gli avevano rubato il portafogli. Lo stesso portafogli che aveva recuperato durante l’incendio di una cantina di un suo amico. Mi ha detto, inoltre,  che era arrivato due volte ultimo alla maratona di Zanzovecchio, dove lui non aveva potuto partecipare a causa di un’unghia incarnita. A causa di tutto ciò, mi ha soggiunto mentre fuggiva via, che quest’anno sarebbe andato in montagna solo per qualche giorno perché amava il sushi.  De Marcellis Paride era noto a scuola per il suo impegno politico e per aver perso due volte il cappello durante le gite scolastiche.
Sono entrato in un alimentari e ho chiesto al commesso dove potessi trovare del pane carré. Mi ha detto di cercare dal quella parte perché lui aveva da fare. Anzi mi ha detto anche di scostarmi: doveva passare e  intralciavo. Ho atteso che si liberasse per poter chiedere anche delle alici sotto sale ma, dopo tre quarti d’ora, sono andato via.
Tornando a casa, sono passato dal medico curante. Il dottor Lo Fosco Ubaldo (che secondo lui si pronuncia Ùbaldo, perché la mamma era originaria delle Isole Comore), di anni 38, è proprietario di una barca a vela sulla quale ospita, a dire dei suoi pazienti (me escluso), donne di facili costumi. Essendo, in quel momento, il dottor Lo Fosco  molto occupato, ho cercato di prendere un appuntamento tramite la sua segretaria. La detta segretaria è la signorina Vela Linda, di anni 25, abbronzata, fa come secondo lavoro la portatrice di tatuaggi sulle natiche. La segretaria non mi neanche degnato di uno sguardo e, mentre parlava concitatamente al telefono, mi ha detto di ripassare all’inizio del prossimo anno.
Saverio è un mio amico, è venuto stasera a trovarmi e mi ha chiesto: come stai? Gli ho detto che non lo sapevo. Saverio è un  filosofo in pensione e, da qualche anno, si rifiuta anche di pensare. Abbiamo bevuto una tisana.
Prima di andare via, mi ha detto di aver letto da qualche parte che le cose da fare a questo mondo, da qualche anno, erano di molto aumentate. In più, chi nasceva ora si trovava sulle spalle anche il carico delle cose da fare che aveva lasciato chi era, nel frattempo, morto senza poterle portare a termine. Saverio mi raccontava, a sostegno di questa tesi,  di un suo nipote di 8 anni che aveva ancora da accompagnare la nonna a scuola e che si trovava in difficoltà perché la nonna era morta e la scuola era chiusa da venti anni. Saverio, tra l’altro, doveva ancora andare a comprare delle scarpe numero 46, lui portava il 43 ma le scarpe le avrebbe dovute acquistare il suocero quando, affaticato e impegnatissimo com’era, lasciò questo mondo all’età di 97 anni.  
E di molti altri impegni inevasi Saverio mi raccontò, fino a che il sonno non ci appesantì gli occhi. Guardai Saverio, mi guardò anche lui. Ci demmo appuntamento per l’indomani. Avremmo fatto  due passi e poi chissà dove saremmo andati a chiacchierare.
A noi basta il nostro tempo.

©Gianfranco Brevetto 2016


lunedì 19 settembre 2016

LO SPRITZ CHE A SPRATZ CI SPRUTZ LA VITA

Il mio amico Amedeo non sa resistere. Prima  di cena o di pranzo ,  vuole uno spritz. Perché? Non lo so!
Lo frequento abbastanza  e mi sono accorto che, i momenti in cui si abbandona allo lo spritz, sono tanti e variamente distribuiti durante il giorno. Lo spritz c’è  a metà mattinata, prima di pranzo, a metà pomeriggio, prima di cena, prima di coricarsi. Sembrerebbe, da quello che mi racconta Amedeo, che  con lo spritz si fanno delle pause. ad ogni pausa corrisponde uno spritz, ma non è detto che ad ogni spritz corrisponda un momento della giornata ben definito.  Comunque l’assunzione di spritz sembrerebbe, sempre secondo il racconto di Amedeo,  seguire alcune regole di ripartizione del tempo della giornata che, in questa prospettiva, diventerebbe più ordinata ed accettabile.
Una volta, con la scusa che tutti fanno la pausa dello spritz, mi sono fatto convincere dal mio amico a farla anche io. Per non essere da meno ma, soprattutto, per aver qualcosa da raccontare, un domani, ai miei nipoti. Insomma per poter loro dire: c’ero anche io.
Credevo, inoltre, che fosse giunto il momento di tralasciare i caffè e i cappuccini con i cuoricini e le faccine disegnare con la schiuma e dedicarmi a qualcosa di più serio ed esaltante.
Siamo quindi arrivati in centro città, dove gli aperitivi acquistano tutta la loro importanza. Il Bar, con una miriade di tavolini all’aperto si chiamava, tanto per restare inosservato, Gran Bar Excelsior. Ci siamo accertati che gli altri stessero lì per lo spesso motivo e ci siamo accomodati. Dimenticavo che, poco prima, eravamo passati da un sarto amico di Amedeo che ci aveva, in tutta fretta, adattati e prestati due vestiti da aperitivo.
In quel momento mi sono sentito un altro, diverso. Ero contornato da tutti quegli spritz con tante patatine, noccioline, pezzettini di pane con creme varie, olivette con e senza nocciolo, , rotolini di acciughe con dentro pezzettini di peperoni, ombrellini e rotelline di carta, fette e fettine di agrumi vari,  scorzette e  ciliegine. Stuzzicadenti, forchettine e forchettone, salviettine, bicchierini, bicchieroni colorati, cannucce, cucchiaini.
Insomma un mondo festoso e colorato. Attorniato da tutta quella bella gente, ho notato subito una signora sui quaranta che lasciava volutamente scoperta una spalla e ho  creduto che lo facesse per me. Pensavo che, quella dell’aperitivo,  fosse una sorta di pausa felice in un mondo sempre più degradato dalla corruzione e dalla violenza. Una beatitudine frizzante e variopinta. 
Ho persino, ma solo per un attimo, pensato di essere felice. Lo devo confessare, in quel tintinnio di bicchieri e fughe improbabili di olive bianche e nere, ho compreso finalmente l’importanza dello spritz.
Ho ringraziato Amedeo che mi aveva portato con lui in centro, al Gran Bar Excelsior. Ho lasciato di malavoglia  il tavolino cosparso di noccioline disperse e frammenti di patatine. Ci siamo dati appuntamento a domani, ma forse anche prima.
Che bello il mondo degli aperitivi! Non lo lascerò più. Lo prometto. Anzi credo che sarà la mia unica ragione di vivere. In mancanza d’altro.


©2016 Gianfranco Brevetto

lunedì 12 settembre 2016

DUPLICATO SARA' LEI!


Sembra che uno dei più grandi imperativi dell’età contemporanea sia quello di coordinarsi. 
Non solo nei tempi, ma anche nei colori, nelle fantasie, nelle letture, ascolti, idee. Ma anche gli orari in cui fare sesso o andare al bagno. La scusa è quella dei bioritmi che, se utilizzati al meglio, danno il massimo risultato. Chissà!
Mio zio Nicola aveva scelto di vivere per conto suo, con pochi contatti con gli altri e limitandosi ad ammirare i concittadini  affacciato al terrazzo o alla finestra di casa. Aveva la fortuna di abitare al centro di una grande città e poteva vedere tanta umanità sfilare sotto i suoi occhi.
Pochi amici e pochi parenti, non si era mai sposato. Non aveva mai avuto fidanzate. Non aveva mai lavorato, potendo contare su di una discreta rendita. Poche volte era partito per le vacanze, diceva che a casa sua stava meglio di qualsiasi altra parte.
Fin qui tutto noiosamente normale se non fosse che, a zio Nicola, dava fastidio qualsiasi cosa doppia, simile, rassomigliante, che ricordasse anche lontanamente qualcos'altro.
Aveva così deciso di modificare il suo nome in zioNicola (una sola parola) per evitare di confondersi con altri zii. Non possedeva oggetti che fossero identici o doppi: usava un mono ciclo per spostarsi, le posate erano pezzi unici come  i piatti,  il tavolo della sala aveva solo una gamba poi era accostato al muro, comprava una bottiglia di acqua alla volta, non usava mai lo stesso vocabolo quando parlava o scriveva.
Odiava i gemelli, i calzini, gli occhiali e i pantaloni. Come le paia di scarpe, le dita della mani e dei piedi.
Questa idiosincrasia era nei confronti  dell’uguale, delle cose coordinate e coordinabili, delle immagini doppie o speculari.
Per lui, tutte le cose e le persone avevano un senso solo se uniche. Per questo i suoi vestiti, quei pochi che aveva, li ordinava direttamente da un sarto su modelli esclusivi, la carrozzeria ed il motore dell’auto erano personalizzate e protette da copyright. I mobili di casa erano anch'essi fabbricati da artigiani su progetti tenuti in gran segreto.
Guai agli specchi! Avevano il difetto di duplicare e riflettere. Non festeggiava il compleanno per evitare di mischiarsi con tutti quelli che nel mondo erano nati nel suo stesso giorno.
Insomma Zionicola (guai a scriverlo due volte nello stesso modo) era fatto così. E come non dargli torto. Ci teneva a vivere nell'unicità, come unico lui pretendeva di essere.
ZiOnIcOlA era veramente originale, e aveva fatto dell’originalità il suo unico modo di vivere, ma di questa sua idea non ne parlava mai in pubblico: aveva paura di essere copiato.
Ma alla fine, tutto questo lavoro valse a poco. E sapete bene dove voglio arrivare. Questa sua opinabile, quanto rivoluzionaria e utopistica,  idea crollo proprio nel giorno della sua morte. Ma non fu come  immaginate. 
ZIOnicola aveva, infatti,  programmato e disposto, su questa terra,  in modo da non venire meno alle sue convinzioni.
Ma non aveva previsto l’aldilà. Qui, ZioNIcoLA,  oramai liberato dal suo unico corpo mortale è beandosi nella leggerezza della sua anima immortale, s’imbatté in quell'essenza alla quale mai aveva pensato nella pesantezza della materia: la sua unica ed insostituibile anima gemella.


© 2016 Gianfranco Brevetto















lunedì 16 maggio 2016

VADO IN INDIA ALLA RICERCA DI ME STESSO

Ieri sera sono atterrato all’aeroporto di New Delhi. Avevo solo un piccolo zainetto con me,  all’interno ci avevo sistemato una borsa pieghevole, quelle di tela morbida per intenderci. 
Nella gran confusione dell’uscita, ho  subito individuato Barbiche. Mi aspettava seduto alla guida di una vecchia Ape Piaggio.
Barbiche mi ha fatto accomodare nel cassone dove c’era un sedile coperto di alcuni cuscini che ricordavano motivi orientali. Ad un cenno del suo capo, gli ho mostrato il rotolo di rupie che avevo nascosto nella tasca dei pantaloni e siamo partiti. Eravamo al tramonto, almeno mi è parso così, ma non ne sono sicuro. So invece con certezza che devo essermi addormentato e Barbiche deve aver guidato per diverse ore. All’arrivo mi ha chiesto più rupie di quante ne avevamo pattuito nel nostro primo contatto, avvenuto nel mio inglese scadente, tramite un’agenzia di Taiwan che facilita questo tipo di contatti.
Barbiche mi ha scaricato dinnanzi ad un grande parallelepipedo sul quale, a grandi lettere, c’era scritto : India Oneself Company.
- Desidera? Mi ha chiesto all’entrata un ometto del tutto simile a Barbiche.
Io gli ho mostrato un  biglietto, scritto in una grafia incomprensibile, che mi avevano consegnato appena sceso dall’aereo e lui mi ha accompagnato all’interno.
Ho dovuto far ricorso alle mie reminiscenze aristoteliche, per accorgermi  che il parallelepipedo non era altro che un deposito nel quale erano raccolti i me stesso dell’intero genere umano. Conseguentemente fui costretto, nel tentativo di ricercarmi, ad entrare, come in un gioco di scatole cinesi,  in parallelepipedi sempre più piccoli. Su questi era indicati , via via che la classificazione genere-specie diveniva concreta, bianco, europeo, italiano, meridionale, campano, napoletano. Mi  trovai, in ultimo, di fronte ad un’enorme scatola e l’ometto mi fece un segno come per dirmi: cerca lì!
Fu solo in quel momento che mi apparve evidente la complessità di quell’impresa, in primo luogo perché lì dentro, alla rinfusa c’erano oggetti per me insignificanti che dovevano essere dei me stesso di perfetti sconosciuti. In più c’erano anche i me stesso di quelli che non si erano mai cercati, di quelli che non si erano accorti di essersi persi, dei me stesso rifiutati perché difettosi ed anche i duplicati dei me stesso di quelli che lo avevano definitivamente perso e ne avevano richiesto un altro in sostituzione.
La verità è che, in quella bolgia, diventava difficoltosa qualsiasi ricerca.  Infatti, i me stesso, sempre seguendo gli insegnamenti dello stagirita, erano solo materia senza alcuna forma.  Cosi che,  tutti quelli che si erano  miseramente persi, rischiavano di non ritrovarsi più.
Perché non avevo dato ascolto alla mia amica? Perché non aveva seguito l’indicazione scritta sul frontone del tempio di Delfi? Avevo sempre considerato il “conosci te stesso” una pura perdita di tempo.
Come potevo ora, se non mi ero mai conosciuto, riconoscermi in quella massa di materia informe?
Intanto erano arrivate anche altre persone e si sentivano pianti, imprecazioni, urla di gioia, che mi facevano pensare  a tutte le varie e possibili  situazioni che potevano capitare in quel luogo lontanissimo e sperduto del subcontinente indiano.
Era tutto un gran da fare:  cerca, ritrova , prendi, scambia, riporta, perdi, conosci, riconosci, tira e molla, adattarsi ad un me stesso trovato in buono stato o d’occasione, separarsi dai me stesso con i quali non si andava più d’accordo.
E poi c’era il problema dei falsi. Produrre dei me stesso in Cina costa la metà che in Europa. Sono del tutto identici a quelli originali, solo che durano meno. Alla prima crisi occorre sostituirli.
Dopo un’ora di inutili tentativi, decisi di uscire gettando un occhio allo scatolone  dei me stesso appartenenti alle persone morte che non erano riuscite a ritrovarsi in tempo utile. Molti di loro sarebbero stati dati in adozione.
All’uscita ritrovai Barbiche che. Prima di farmi risalire, mi chiese di mostrargli se avevo le rupie sufficienti per pagare il viaggio di ritorno. E così feci..
Vedendomi uscire solo con il mio zainetto e senza altro bagaglio si rese conto di quanto mi era successo. Della mia ricerca infruttuosa.
Una volta all’aeroporto Barbiche accennò ad un saluto solo dopo essersi accertato che tutte le rupie in mio possesso gli fossero state consegnate. A quel punto, stanco ed esausto, trovai il coraggio di prenderlo per un polso e domandargli:
- Secondo lei, esiste davvero un me stesso?
Barbiche mi guardò per un attimo e poi rispose:
- Per noi sono solo cose per turisti.

© 2016 Gianfranco Brevetto

 

sabato 2 aprile 2016

MARTA E... CHIARA MENICHETTI


Marta....

uno dei nomi che avrei voluto dare a mia figlia.

Marta... la donna così indaffarata, narrata dal Vangelo... ma ben più grande forse nei sentimenti di chi trovava stasi e meditazione... “Marta.. Marta”.

La Marta di Gianfranco... una storia muta.. ma assordante.... uno scomporsi in mille pezzi per poi riuscire ad esser Una.

Una voce narrante... che si insinua, osserva, guarda... complice di un puzzle disfatto.. di cui ancora non si e' deciso se conservare o gettare i pezzi.. una scrittura muta.. che non si fa stendere sulla carta.. ma disegna rivoli di nuvole nella mente.

Marta, che si fa guardare... che si difende... che abita un tempo senza punteggiatura. Un uomo, forse ferito o in rinascita..un investigatore di se stesso e della femminilità di Marta. Un amore non consumato perché ancora avvolto da troppe solitudini.

Un disperato bisogno di conoscersi osservandosi nello specchio altrui alla ricerca di un legame impossibile da tessere. Chi è Marta?  Chi e' l’autore?

Si attende la neve. Il manto bianco che nasconde le tracce ma che così bene le accoglie se impresse sulla sua coltre.

Una promessa muta, un ricordo senza lacci.

Una solitudine che si colma in un luogo senza mura.

 

Chiara