C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

sabato 6 novembre 2021

Del patto di non rivedersi


 

Del patto di non rivedersi

m’innamorai.

Del non stabilire

ore,

giorni,

luoghi.

Il ripetersi

dell’affollarsi nelle agende.

Abbiamo bisogno

(converrai)

di altri segni,

non comuni.

Lasciati al caso.

Un improvviso ricordo

(il riaffiorare di un oblio)

Un inconfessato segreto

(una libera associazione)

Al patto di non rivedersi

consegnammo il passato.

Al poi

(il di là da venire)

fummo,

in eterno,

fedeli.



 

(Altri segni ©2021 G. Brevetto)


martedì 28 settembre 2021

Io, Pinocchio, Giona e altri indigesti


 

Soffro da tempo di gastrite, ma questa sarebbe una notizia di poco conto se non fosse per le sue conseguenze impreviste e che si condensarono in quel giorno di fine estate. 

Nel tardo pomeriggio, deciso a non cedere alle ricorrenti voci sulle sopravvenienti ambasce legate al cambio di stagione, mi decisi per una lunga passeggiata in riva al mare. Così giunsi al luogo in cui, normalmente, le correnti determinano una piccola penisola sabbiosa e questa si estende per una decina di metri al di la della linea del bagnasciuga. Lì c'era qualcosa mai notata prima, come se fosse uno scoglio nero di natura vulcanica, un promontorio scuro, rotondo, levigato e reso lucente dall’umidità marina.

La gastrite, come confermato da un recente sondaggio, rende curiosi. Di una curiosità mista a malinconia, strana a descriversi, tuttavia conclamata nella sua sintomatologia, peraltro descritta ampiamente in letteratura medica. Mi avvicinai, dunque, cercando d’individuare il punto in cui lo scoglio sembrava affiorare dalle acque circostanti.

Di lì a pochi metri mi apparve evidente che l’oggetto, che ora si mostrava come animato e sopito, fosse giunto in quel luogo da poco e pareva in attesa. Mi avvicinai ancora un po’ e poi ancora qualche centimetro. Quando fui lì quasi a toccarlo, quella cosa, ricordo con un certa confusione, si separò in due perpendicolarmente alla spiaggia. E io, risucchiato o spinto, non vi so dire, mi ritrovai al buio.

Dopo qualche minuto le pupille, avvezze fino a un attimo prima alla luce del sole, si abituarono a quella penombra e, distinguendo nel chiaroscuro, cominciai a capire. Un’enorme mucosa mi separava dal mondo esterno del quale, ora, percepivo in lontananza le grida dei bambini che giocavano a racchettoni sulla spiaggia.

Poi, con lo stesso ritmo lento, solenne e irreversibile di un treno che parte, quella mucosa si mosse. Mi sedetti. Le mie orecchie mi segnalavano che la pressione esterna stava variando rapidamente, poi, d’improvviso, si stabilizzò.

Mi alzai in piedi e, eccetto qualche piccolo ondeggiamento, riuscivo a non perdere l’equilibrio. Mi addentrai nella direzione che credevo contraria a quella in cui ci muovevamo. Feci  qualche passo e vidi, comodamente seduti su una sorta di cartilagine rosea, due personaggi che discutevano animatamente.

Non potevo non riconoscerli. Approfittando di una pausa in cui sembravano entrambi riflettere, mi presentai. Il mio nome non disse loro nulla, mi salutarono distrattamente e proseguirono a parlare ad alta voce. Non mi rimase che sedermi anche io ad ascoltare.

Il personaggio biblico sosteneva l’unicità e l’autenticità della sua disobbedienza e del suo pentimento. L’argomentazione si basava soprattutto sul rapporto con il divino, cosa che sembrava mancare al suo interlocutore. Quest’ultimo, a cui gocciolava il naso per la forte umidità, riteneva che la veridicità del pentimento fosse testimoniata dall’avvenuta metamorfosi in un bambino vero e che, la Fata Turchina, avesse qualcosa di divino, almeno nel colore dei capelli. Il profeta non ne era convinto e lo canzonava chiedendogli, senza sosta, chi fosse l’autore di quella presunta metamorfosi. Il bambino, confuso, non sapeva rispondere. Piagnucolando, parlava di suo padre senza mai citare sua madre.

La discussione, più o meno in questi termini, andava avanti e ritenevo, non avendo un orologio con me, che fossero già trascorse più di due ore, quando mi rivolsi loro chiedendo come mai quelle mucose che ci trasportavano non ci avessero ancora digeriti.

Dopo aver riflettuto, i due personaggi fecero un timido tentativo di mettere in dubbio l’esistenza di un animale marino che li includeva e anche di una realtà esterna. A sostegno della mia tesi, basandomi sull’evidenza, mostrai alcune foto nella quali mi si riconosceva mentre ero intento a ammirare un panorama, con colline e alberi da frutto. In quella immagine ero insieme ad un amico, ma in quel momento non seppi dirne il nome, non lo ricordavo. La cosa mi accade spesso ma, preso come ero dal discorso, non me ne preoccupai.

Mi chiesero allora se fossi il frutto delle fantasia di qualcuno, se ero stato narrato da qualche libro a loro sconosciuto o se  avessi almeno disubbidito? Risposi loro di no (forse mentendo). Da lì segui un’altra interminabile discussione sulla mia reale natura. Sull’argomento mi astenni, disperdendo il mio sguardo altrove. 

Fu così che notai che quell’enorme mucosa procedeva per ambienti successivi e si diramava oltre, in cunicoli, procedendo per spasmi e singulti. Lì s’intravedevano altre persone, alcune mi sembrarono familiari, altre meno. Tutti mi parevano, però, intenti a discutere nel tentativo di provare o negare il loro rapporto con una divinità, la presunzione di aver o meno rispettato la legge, alcuni parlavano di predestinazione.

Sono alcuni anni che li ascolto parlare, non sempre con interesse. Le mucose mi hanno causato un leggero eritema. Continuo a chiedermi, tuttavia, perché io, come gli altri miei compagni di viaggio, siamo risultati indigesti. 

A distanza di tempo, un’idea me la sono fatta, ma non ha più nulla a che fare con la gastrite.

 

©2021 Gianfranco Brevetto